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Concessioni - la funzione del Piano Economico Finanziario

Gestione cassa e previsioni finanziarie

Le concessioni di lavori e servizi si qualificano per il trasferimento del rischio operativo dal concedente al concessionario ed il Piano Economico Finanziario è lo strumento mediante il quale si attua la concreta distribuzione del rischio tra le parti del rapporto.

Il rischio assunto dal concessionario si valuta proprio intorno alla aleatorietà della domanda di prestazioni poiché l’errore di valutazione del livello di domanda attendibile evidentemente condiziona la remuneratività dell’investimento e misura la validità imprenditoriale dell’iniziativa economica.

Il PEF ha, infatti, la funzione di garantire, lungo tutto l'arco temporale della gestione, l'equilibrio economico e finanziario dell'iniziativa per mezzo di una corretta allocazione dei rischi e di dimostrare la sostenibilità dell'operazione, consentendo all'Ente concedente di valutare l'adeguatezza dell'offerta e l'effettiva realizzabilità dell'oggetto della concessione (Cons. Stato, sez. V, 4 febbraio 2022, n. 795). In altri termini, è il documento che giustifica la sostenibilità dell’offerta, quale dimostrazione che l’impresa è in condizione di trarre utili tali da consentire la gestione proficua dell’attività.

L'Ente concedente, nell'esame dei PEF presentati dai concorrenti, è chiamato a valutare l'adeguatezza e sostenibilità dell'offerta e la concreta distribuzione del rischio tra le parti alla luce delle discipline tecniche ed economiche applicabili e sulla base delle eventuali prescrizioni dettate dalla legge di gara.

Il T.A.R. Lazio ribadisce che, nell'ambito delle procedure per l'affidamento delle concessioni di lavori e servizi, la valutazione del Piano Economico Finanziario che correda l'offerta consiste in una valutazione tecnica riservata all'ente concedente e tendenzialmente insindacabile in sede giurisdizionale, salvo che nelle ipotesi di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza (T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 25 maggio 2022, n. 6758).

L'operatore economico che intenda contestare l'aggiudicazione, censurando l'attività di valutazione tecnica dei PEF, deve, quindi, fornire puntuale evidenza della macroscopica irragionevolezza del giudizio che ha condotto l'Ente concedente a valutare congruo e adeguato il PEF dell'aggiudicataria nonché della piena adeguatezza e idoneità finanziaria del proprio PEF.

 

 

 

Buona fede degli offerenti e partecipazione alla gara

Con la sentenza n. 9789/2023, il Consiglio di Stato ha affermato che l'incertezza del contenuto dell’offerta non può determinare l’esclusione del concorrente laddove tale incertezza derivi dagli atti di gara.

Vale infatti il principio della necessaria salvaguardia della buona fede degli offerenti, in coerenza con i canoni della leale cooperazione e del favor per la più ampia partecipazione alle gare pubbliche (Cons. St., sez. V, 13 ottobre 2023 n. 8966): l'esigenza di apprestare tutela alla posizione di questi inibisce alla stazione appaltante di escludere dalla gara un'impresa che abbia compilato l'offerta in conformità alle previsioni della legge di gara o al facsimile di offerta da essa stessa approntato. Ciò anche se la legge di gara è incerta, purché la modalità di compilazione prescelta dall’offerente rientri fra i possibili significati della clausola incerta.

L'applicazione della regola di correttezza dell'azione amministrativa, in uno con la generale clausola di buona fede, impedisce che le conseguenze della condotta della stazione appaltante possano essere traslate a carico del soggetto partecipante con la comminatoria dell'esclusione dalla procedura, così come non è ammissibile l'ascrizione in capo al concorrente delle conseguenze negative di un errore indotto dalla disciplina di gara (Cons. St., sez. V, 13 ottobre 2023 n. 8966).

La stessa Corte di giustizia ha affermato che “Il principio di parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza devono essere interpretati nel senso che ostano all'esclusione di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato rispetto, da parte di tale operatore, di un obbligo che non risulta espressamente dai documenti relativi a tale procedura o dal diritto nazionale vigente”, con la conseguenza che “in tali circostanze, i principi di parità di trattamento e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di consentire all'operatore economico di regolarizzare la propria posizione e di adempiere tale obbligo entro un termine fissato dall'amministrazione aggiudicatrice” (2 giugno 2016, C-27/15 e 10 novembre 2016, C-162). Peraltro, nel caso controverso, l’attività di chiarimento dell’offerta è stata effettuata senza alterare i valori nella medesima contenuti, sicché la volontà negoziale è stata comunque espressa nell’offerta e non è stata alterata.

Illegittima l'esclusione per la mancata indicazione del subappalto necessario

Subappalto necessario: esclusione legittima se manca la dichiarazione specifica

Il TAR Lazio, sent. n. 15165 del 12 ottobre 2023, ha affermato che l'operatore in possesso dei requisiti relativi alla categoria prevalente per l'importo totale dei lavori e che abbia formalizzato la richiesta di subappaltato per le lavorazioni a qualificazione obbligatoria non può essere escluso dalla gara per la mera circostanza di non aver specificato nella domanda di gara che il subappalto cui faceva ricorso era da intendersi “necessario”.

Il subappalto c.d. necessario

Ai sensi dell'art. 12, comma 2, d.l. 28 marzo 2014, n. 47, convertito con modifiche in l. 23 maggio 2014, n. 80, l'operatore economico in possesso della qualificazione per la sola categoria prevalente può partecipare alle gare per l'affidamento di lavori pubblici, anche se privo delle qualificazioni previste dal bando per le categorie scorporabili, alla condizione, però, che affidi le lavorazioni riconducibili alle predette categorie, se a qualificazione obbligatoria, a imprese in possesso delle necessarie qualificazioni.

Il subappalto c.d. necessario si differenzia, quindi, rispetto al subappalto c.d. ordinario, frutto invece di una libera scelta imprenditoriale, essendo il concorrente già in possesso di tutti i requisiti di partecipazione.

Il TAR ha rilevato che, dal combinato disposto tra l'art. 92 d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207 e l'art. 12, comma 2, d.l. 28 marzo 2014, n. 47 si desume in maniera chiara che l'operatore economico in possesso dei requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi relativi alla categoria prevalente per l'importo totale dei lavori può partecipare alla gara, anche se non è in possesso dei requisiti di qualificazione relativi alle categorie scorporabili, chiarendo tuttavia che, se il difetto di qualificazione attiene alle categorie a qualificazione obbligatoria, le lavorazioni corrispondenti alle predette categorie non possono essere eseguite dal concorrente, ma unicamente da un soggetto in possesso delle relative qualificazioni, mediante il ricorso al subappalto necessario.

La decisione

Partendo da tali premesse, il Collegio ha dato risposta negativa alla questione se l'operatore in possesso dei requisiti relativi alla categoria prevalente per l'importo totale dei lavori e che abbia formalizzato la richiesta di subappaltato per le lavorazioni a qualificazione obbligatoria possa essere escluso dalla gara per la mera circostanza di non aver specificato nella domanda di gara che il subappalto cui faceva ricorso era da intendersi “necessario”.

Ciò in quanto, per un verso, la mancata indicazione nel DGUE della natura “qualificatoria” del subappalto era inidonea, in assenza di precise previsioni del bando in tal senso, a rendere la dichiarazione di subappalto eccessivamente generica, in quanto, seppure la dichiarazione di subappalto non conteneva la specificazione che lo stesso fosse “necessario”, il concorrente aveva comunque formalizzato la dichiarazione di subappalto nell'apposita sezione del DGUE, indicando espressamente le singole categorie di lavorazioni oggetto di subappalto e la classifica di riferimento.

E, per altro verso, è la categoria prevalente capiente a garantire l'ammissione del concorrente alla gara, mentre il subappalto e la relativa dichiarazione, che pure deve essere resa, ha la diversa funzione di colmare le preclusioni esecutive derivanti dal mancato possesso delle specifiche qualifiche per le categorie a qualificazione obbligatoria.

Ad ogni modo, afferma la sentenza, anche a voler ritenere che la dichiarazione di subappalto non fosse del tutto univoca, deve escludersi che dal mancato utilizzo dell'aggettivo “qualificatorio” accanto alla parola subappalto possa derivare una conseguenza tanto grave quale l'esclusione del concorrente dalla gara, in quanto evidentemente sproporzionata e irragionevole e in contrasto con il principio del favor partecipationis e con quello della tassatività delle clausole escludenti.

Ciò a prescindere dal fatto che, ove la stazione appaltane avesse avuto necessità di maggiori chiarimenti in merito al contenuto della dichiarazione di subappalto, la stessa avrebbe comunque potuto, al limite, attivare il soccorso istruttorio e/o procedimentale.

Sicché, l'affermazione che il concorrente non avesse i requisiti per partecipare, nel caso di specie, non è stato frutto di un accertamento, bensì della supposizione (erronea) dell'Amministrazione che la dichiarazione di subappalto contenuta nel DGUE non fosse una dichiarazione impegnativa ma solo la prospettazione di un'ipotetica possibilità del ricorso al subappalto.

 

Consorzi stabili: ammissibile il cumulo alla rinfusa per servizi e forniture

I Consorzi Stabili nel panorama degli appalti pubblici

Il Consiglio di Stato, sentenza n. 8767 del 9 ottobre 2023, si è espresso sulla disposizione del nuovo Codice dei contratti pubblici di cui all’art. 225, D. Leg.vo 36/2023, comma 13, secondo periodo, di fatto consentendo ai consorzi stabili di far ricorso in modo generalizzato al c.d. “cumulo alla rinfusa” ai fini dell’affidamento di servizi e forniture.

Nel caso esaminato, il Consorzio era stato escluso dalla procedura di affidamento in quanto l’impresa indicata per l’esecuzione delle prestazioni non era in possesso della qualificazione SOA richiesta dal disciplinare di gara. Il TAR aveva confermato l’esclusione sulla base di un orientamento più restrittivo secondo cui, ai sensi dell’art. 47, comma 2-bis, del D. Leg.vo 50/2016, la possibilità di “qualificazione cumulativa” nell’ambito dei consorzi stabili sarebbe limitata ai requisiti relativi alla disponibilità delle attrezzature e mezzi d’opera e all’organico medio annuo (C. Stato 22/08/2022, n. 7360).
In proposito i giudici hanno rilevato l’esistenza di due diversi orientamenti giurisprudenziali:
1. il primo di essi (al quale aveva aderito il TAR), ritiene che qualora il consorzio individui una consorziata come esecutrice, quest'ultima dovrà essere autonomamente in possesso del requisito di qualificazione, così come, in caso di esecuzione in proprio ad opera del consorzio, quest'ultimo dovrà possedere autonomamente il requisito; l'utilizzo della "maggiore" qualificazione del consorzio stabile non potrebbe, cioè, legittimare l'esecuzione di prestazioni da parte di piccole e medie imprese del tutto prive della qualificazione;
2. un secondo indirizzo reputa invece ammissibile il generalizzato ricorso al cumulo alla rinfusa.
Ai fini della soluzione del contrasto interpretativo, il Consiglio di Stato ha ritenuto dirimente la disposizione del nuovo Codice dei contratti pubblici di cui all’art. 225, D. Leg.vo 36/2023, comma 13, secondo periodo, la quale ha stabilito che l’art. 47, comma 2-bis, del D. Leg.vo 50/2016, si interpreta nel senso che, negli appalti di servizi e forniture, la sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti richiesti nel bando di gara per l’affidamento di servizi e forniture è valutata a seguito della verifica della effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai singoli consorziati, anche se diversi da quelli designati in gara.
Alla luce del chiarimento così intervenuto, la disposizione autenticamente interpretata va intesa nel senso di consentire ai consorzi stabili di far ricorso in modo generalizzato al c.d. “cumulo alla rinfusa” ai fini dell’affidamento di servizi e forniture, e dunque di poter ben integrare i requisiti previsti dalla lex specialis mediante quelli posseduti dalle proprie consorziate non esecutrici. Ne consegue che se il Consorzio stabile è in possesso, in proprio, dei requisiti partecipativi richiesti dalla legge di gara, a nulla rileva, in ragione dell’interpretazione offerta dalla suddetta disposizione, l’assenza della qualificazione SOA in capo alla consorziata esecutrice dei lavori (C. Stato 05/05/2023, n. 1761).
La disposizione di cui al citato art. 225, entrata in vigore il 01/04/2023 (cfr. l’art. 229, comma 1, D. Leg.vo 36/2023), trattandosi di norma d’interpretazione autentica, ha valore retroattivo e non è soggetta al regime di cui all’art. 229, comma 2, D. Leg.vo 36/2023 di efficacia differita, riferibile alle altre disposizioni del decreto legislativo. La sua valenza di norma di interpretazione autentica, si legge nella sentenza, risalta proprio alla luce del contrasto insorto in merito alla corretta lettura del quadro normativo e trae conferma dal dichiarato intento del legislatore di risolvere la disputa orientandola verso una delle due soluzioni interpretative sin qui consolidatesi nella esegesi del dato testuale, e ciò anche al fine di raccordare e coordinare vecchia e nuova disciplina, superando le incertezze giurisprudenziali registratesi in precedenza. In sostanza i giudici hanno confermato la possibilità di applicare l’interpretazione fornita dal nuovo Codice anche alle controversie insorte prima della sua entrata in vigore, trattandosi di norma retroattiva.

 

Il PEF nelle concessioni

Con sentenza n. 1042 del 30 gennaio 2023, la quinta sezione del Consiglio di Stato ha indicato la funzione che assume il piano economico finanziario (c.d. PEF) nelle concessioni di lavori e di servizi. Secondo la definizione legale contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. uu) [concessione di lavori] e vv) [concessione di servizi], del Codice dei contratti pubblici, formulata in piena coerenza con il diritto unionale, la concessione è un contratto a titolo oneroso che ha per oggetto l’affidamento, da parte della stazione appaltante, della esecuzione di lavori o della fornitura e gestione di servizi in cui il concessionario ricava il corrispettivo ad esso spettante per l’esecuzione del contratto esercitando il diritto a gestire le opere o i servizi e a trattenere i ricavi della gestione, assumendosi i rischi connessi a tale gestione (e principalmente, nella concessione di servizi in cui la parte relativa ai servizi è prevalente rispetto ai lavori, il rischio derivante dalla domanda del servizio).

La concessione, sia di lavori pubblici che di servizi, si caratterizza pertanto per un dato: la remunerazione degli investimenti compiuti dall’operatore economico privato e delle prestazioni rese nell’esecuzione della concessione è costituita dal diritto di gestire funzionalmente ed economicamente il servizio (o i servizi) erogati attraverso le opere pubbliche realizzate.

Il che significa, come d’altronde emerge agevolmente dalla lettura sia delle definizioni di cui all’art. 3, comma 1, lett. cit. [si vedano anche le lettere zz), aaa), bbb) e ccc), nelle quali è scolpita la definizione delle diverse tipologie di rischi trasferiti in capo al concessionario], che dell’art. 165 del Codice dei contratti pubblici, che i servizi in questione debbono avere una chiara natura imprenditoriale, nel senso che si rivolgono ad un mercato composto da una pluralità di utenti che ne domandano le prestazioni.

Il rischio assunto dal concessionario si valuta proprio intorno alla aleatorietà della domanda di prestazioni poiché l’errore di valutazione del livello di domanda attendibile evidentemente condiziona la remuneratività dell’investimento e misura la validità imprenditoriale dell’iniziativa economica.

Si tratta, come noto, di una tipologia di rischio imprenditoriale diversa da quella riscontrabile nel contratto di appalto (di lavori, servizi o forniture), proprio perché entra in giuoco un elemento imponderabile (cioè la domanda di prestazioni per quel servizio pubblico, non determinabile a priori); elemento che nell’appalto non compare.

In questo quadro, il piano economico finanziario ha la funzione di garantire l’equilibrio economico e finanziario dell’iniziativa (ossia la «contemporanea presenza delle condizioni di convenienza economica e sostenibilità finanziaria») attraverso la «corretta allocazione dei rischi» (art. 165, comma 2, cit.; corretta allocazione che può eventualmente essere temperata da un intervento finanziario posto a carico dell’amministrazione concedente), lungo tutto l’arco temporale della gestione. Se la concessione si qualifica per il trasferimento del rischio operativo dal concedente al concessionario, il PEF è lo strumento mediante il quale si attua la concreta distribuzione del rischio tra le parti del rapporto, la cui adeguatezza e sostenibilità deve essere valutata dall’amministrazione concedente alla luce delle discipline tecniche ed economiche applicabili e sulla base delle eventuali prescrizioni che la stessa amministrazione ha dettato con la lex specialis della procedura per la selezione del concessionario.

Controllo che non si svolge secondo gli schemi propri del giudizio di anomalia dell’offerta nelle procedure d’appalto, il cui oggetto è comunque circoscritto sia per la (di regola) limitata durata nel tempo dell’affidamento, sia per l’assenza di uno specifico rischio operativo e della domanda in capo all’appaltatore. L’assunzione del rischio imprenditoriale da parte del concessionario, i limiti entro i quali tale assunzione è ammissibile e non compromette il proficuo svolgimento dell’attività affidata al terzo [la convenienza economica e la sostenibilità finanziaria: art. 3, comma 1, lett. fff)], è l’oggetto delle valutazioni riservate all’amministrazione concedente.

La ricostruzione delineata riprende gli orientamenti più recenti (cfr. Cons. Stato, sez. V, 4 febbraio 2022, n. 795, ed ivi ulteriori precedenti conformi) che sottolineano come la funzione del PEF sia quella di dimostrare la concreta capacità dell’operatore economico di eseguire correttamente le prestazioni per l’intero arco temporale prescelto, attraverso la prospettazione di un equilibrio economico e finanziario di investimenti e connessa gestione che consenta all’amministrazione concedente di valutare l’adeguatezza dell’offerta e l’effettiva realizzabilità dell’oggetto della concessione (v. anche Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n.4760).

In altri termini il PEF è un documento che giustifica la sostenibilità dell’offerta, quale dimostrazione che l’impresa è in condizione di trarre utili tali da consentire la gestione proficua dell’attività (Cons. Stato, sez. V, 10 febbraio 2010, n. 653).

Diritto all'oblio

Con ordinanza n. 2893 del 31 gennaio 2023, la prima sezione civile della Corte di Cassazione è intervenuta in tema di tutela della riservatezza e del diritto all’oblio con particolare riferimento alla deindicizzazione degli articoli dai normali motori di ricerca.

Per «deindicizzazione» (c.d. delisting) si intende un'operazione sostanzialmente differente dalla rimozione o cancellazione di un contenuto: la deindicizzazione non lo elimina, ma lo rende non direttamente accessibile tramite motori di ricerca esterni all'archivio in cui quel contenuto si trova (cfr. Cass. civ., sez. I, 24 novembre 2022, n. 34658). Il diritto di ogni persona all'oblio, strettamente collegato ai diritti alla riservatezza e all'identità personale, deve essere bilanciato con il diritto della collettività all'informazione, sicché, anche prima dell'entrata in vigore dell'art. 17 Regolamento (UE) 2016/679, qualora sia pubblicato sul web un articolo di interesse generale ma lesivo dei diritti di un soggetto che non rivesta la qualità di personaggio pubblico, noto a livello nazionale, può essere disposta la deindicizzazione dell'articolo dal motore ricerca, al fine di evitare che un accesso agevolato, e protratto nel tempo, ai dati personali di tale soggetto, tramite il semplice utilizzo di parole chiave, possa ledere il diritto di quest'ultimo a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica, diversa da quella reale e costituente oggetto di notizie ormai superate (Cass. civ., sez. I, 31 maggio 2021, n. 15160). E ciò si spiega perché il diritto all'oblio consiste nel non rimanere esposti senza limiti di tempo ad una rappresentazione non più attuale della propria persona con pregiudizio alla reputazione ed alla riservatezza, a causa della ripubblicazione, a distanza di un importante intervallo temporale, di una notizia relativa a fatti del passato, ma la tutela del menzionato diritto va posta in bilanciamento con l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica, sicché nel caso di notizia pubblicata sul web, il medesimo può trovare soddisfazione anche nella sola deindicizzazione dell'articolo dai motori di ricerca (Cass. civ., sez. I, 19 maggio 2020, n. 9147). Anche le Sezioni Unite civili hanno avuto modo di interloquire, precisando che la menzione degli elementi identificativi delle persone protagonisti di fatti e vicende del passato è lecita solo nell'ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito. In caso contrario, prevale il diritto degli interessati di alla riservatezza rispetto ad avvenimenti ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva (Cass. civ., sez. un., 22 luglio 2019, n. 19681).

Il caso in esame, che sempre più frequentemente viene sottoposto al giudizio della Suprema Corte, riguarda l'archivio storico on line di un quotidiano, che per sua natura deve conservare esattamente la memoria degli articoli, a suo tempo legittimamente pubblicati nell'esercizio del diritto di cronaca giornalistica per l'interesse pubblico che circondava la vicenda (normalmente, e in questo caso, una indagine giudiziaria penale), e la legittima aspirazione delle persone coinvolte in quei fatti e in quell'indagine, una volta cessato il clamore e l'interesse pubblico per il decorso del tempo, a non vedersi consegnati al ricordo collettivo in quei termini, tanto più quando l'esito finale del processo penale li abbia visti scagionati e assolti. Rischio questo amplificato dalla potenza evocatrice dei motori di ricerca nell'ambiente internet che, tramite il collegamento alle loro generalità, permette con estrema facilità di rinvenire in rete, anche molti anni dopo, la traccia di quelle notizie e di quegli articoli. Si delinea quindi un conflitto tra gli interessi in gioco e si pone il problema del necessario bilanciamento fra il diritto all'informazione, nel caso, declinato nella forma della conservazione dell'archivio storico delle informazioni pubblicate, da un lato, e il diritto degli interessati a veder calare il velo dell'oblio sulle vicende giudiziarie che li avevano coinvolti. La Suprema Corte ritiene che l'equo contemperamento dei diritti in conflitto non possa essere raggiunto attraverso l'accoglimento della richiesta di cancellazione tout court degli articoli in questione dall'archivio on line del quotidiano, che annichilerebbe con l'iperprotezione dei diritti alla riservatezza degli interessati la funzione di memoria storica e documentale dell'archivio del giornale, che è oggetto di un rilevante interesse pubblico, di rilievo anch'esso costituzionale ex artt. 21 e 33 Cost., come rammenta esattamente la controricorrente. In altri termini, non sarebbe più possibile accedere all'originario contenuto degli articoli ad uno studioso, storico o sociologo, intenzionato a ricostruire l'andamento dei processi per reati contro la pubblica amministrazione in quell'epoca, per esaminare il contenuto delle accuse e il loro esito; e ciò anche se, poniamo, l'obiettivo della sua inchiesta fosse rivolto a dimostrare gli eccessi di repressione giudiziaria o gli abusi della carcerazione preventiva in un certo contesto spazio-temporale oppure l'atteggiamento, più o meno «giustizialista» o «garantista», della stampa e dell'opinione pubblica in quel contesto. Una via adeguata di contemperamento non è neppure quella della manipolazione del testo con l'introduzione di pseudonimi sostitutivi o omissioni nominative, pur astrattamente contemplata dal GDPR. Infatti, lo stesso art. 89 GDPR consente tali accorgimenti solo se le finalità in questione possano essere conseguite in tal modo e non è questo il caso. La memoria storica dell'archivio diverrebbe incompleta e falsata e così se ne perderebbe la funzione.

Non è così per la richiesta di aggiornamento mediante la mera apposizione agli articoli, su istanza dell'interessato, di una nota informativa volta a dar conto del successivo esito dei procedimenti giudiziari con l'assoluzione degli interessati e il risarcimento del danno per ingiusta detenzione. In tal modo l'identità dell'articolo, che in sé e per sé rimane intonso, è adeguatamente preservata a fini di ricerca storico-documentaristica, ma al contempo vengono rispettati i fondamentali principi di minimizzazione ed esattezza sopra illustrati.

La soluzione accolta è inoltre conforme al principio di contestualizzazione e aggiornamento dell'informazione. Non si richiede infatti al gestore dell'archivio di attivarsi in via generale per l'aggiornamento delle informazioni alla luce degli sviluppi giudiziari successivi, che genererebbe effettivamente costi ingenti e insostenibili, incompatibili con la persistente economicità degli archivi, ma solo di corrispondere senza ritardo a puntuali e specifiche richieste degli interessati, documentalmente suffragate, non solo con la deindicizzazione ma anche con l'apposizione di una breve nota informativa sull'esito finale della vicenda giudiziaria, in calce o a margine della pagina ove figura l'articolo.

La regola fondamentale per ogni bilanciamento di diritti richiede la valutazione comparativa della gravità del sacrificio imposto agli interessi in conflitto: la normale tollerabilità di una ingerenza nel diritto altrui, secondo una risalente ma autorevolissima dottrina, va accertata anche alla luce dei costi necessari per prevenirla. E nel caso è sufficiente un costo modesto (l'inserzione di una breve nota in calce o a margine e solo su richiesta di parte, che non altera la funzione tipica dell'archivio) per la prevenzione di un pregiudizio ben più consistente per l'interessato. Tale modesto sacrificio ben può essere accollato a chi gestisce l'impresa giornalistica, in logica di profitto, quale onere accessorio all'attività imprenditoriale, che scatta solo se ed in quanto l'interessato richieda la rettifica esplicativa del dato personale e l'inesattezza del dato viene dedotta sulla base di accertamenti obiettivi e incontrovertibili quali quelli provenienti da un documentato accertamento giudiziario passato in giudicato. Naturalmente questa tutela si aggiunge a quella consistente nella deindicizzazione.

La Suprema Corte, al termine, ha enunciato il seguente principio di diritto: in tema di trattamento dei dati personali e di diritto all'oblio, è lecita la permanenza di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, nell'archivio informatico di un quotidiano, relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di una inchiesta giudiziaria, poi sfociata nell'assoluzione dell'imputato, purché, a richiesta dell'interessato, l'articolo sia deindicizzato e non sia reperibile attraverso i comuni motori di ricerca, ma solo attraverso l'archivio storico del quotidiano e purché, a richiesta documentata dell'interessato, all'articolo sia apposta una sintetica nota informativa, a margine o in calce, che dia conto dell'esito finale del procedimento giudiziario in forza di provvedimenti passati in giudicato, in tal modo contemperandosi in modo bilanciato il diritto ex art. 21 Cost. della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita lesione della propria immagine sociale.

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