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Appalti - il ricorso cumulativo

Con sentenza n. 1120 del 1° febbraio 2023, la terza sezione del Consiglio di Stato ha precisato i limiti della proponibilità del ricorso c.d. cumulativo.

L’art. 120, comma 11-bis, c.p.a. ammette l’impugnazione con ricorso “cumulativo”. Quest’ultimo termine è stato utilizzato dal codice nel comune significato tecnico, ed indica l’unitaria impugnazione di più provvedimenti lesivi.

Va, allora, chiarito il significato delle parole “avverso lo stesso atto”, presenti nel citato comma al fine di circoscrivere l’ammissibilità del ricorso cumulativo, che a prima vista appaiono contraddirne la possibilità stessa.

Invero, la previsione non può che alludere ai casi in cui più lotti d’una stessa gara siano regolati, sotto qualche profilo comune, da un unico atto endoprocedimentale (atto non “plurimo”, come l’impugnato provvedimento dipanantesi in varie aggiudicazioni, bensì “ad oggetto plurimo” con riguardo ai lotti: come il bando, il disciplinare di gara, la composizione della commissione giudicatrice, la determinazione di criteri di valutazione delle offerte tecniche, ecc.) il quale si assume viziato, e che può essere immediatamente gravato ove lesivo o – più spesso - viziare per derivazione le aggiudicazioni finali, per l’appunto impugnate con unico ricorso.

In sintesi, l’art. 120, comma 11-bis, cit.:

(i) presuppone, onde disciplinarlo, il ricorso avverso più determinazioni provvedimentali lesive (appunto “cumulativo”) relative a lotti afferenti a un’unica formale gara;

(ii) ne regolamenta l’ammissibilità, prescrivendo due presupposti: il primo consiste negli “identici motivi di ricorso”, mentre il secondo, compendiato dall’espressione “avverso lo stesso atto”, va inteso in senso procedimentale, alludendo ad atti diversi dall’aggiudicazione (talune difformi pronunce sul punto incorrono nella contraddizione suaccennata, senza risolverla in modo convincente col riferimento all’atto d’aggiudicazione unico in senso esclusivamente formale), i quali nelle fasi iniziali della gara ben possono essere unitari e riguardare più lotti.

In conclusione, possono impugnarsi i verbali e le determinazioni provvedimentali lesive

E' appellabile l'ordinanza Tar sull'istanza di accesso agli atti in corso di giudizio

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 4 del 24 gennaio 2023, ha affrontato la questione dell’appellabilità dell’ordinanza del Tar che decide in ordine ad una istanza di accesso ai documenti amministrativi presentata nel corso del giudizio.

Il comma 2 dell’art. 116, D.L.vo 2 luglio 2010, n. 104 prevede che: «in pendenza di un giudizio cui la richiesta di accesso è connessa il ricorso di cui al comma 1 può essere proposto con istanza depositata presso la segreteria della Sezione cui è assegnato il ricorso principale previa notificazione all’amministrazione e agli eventuali controinteressati». La stessa norma ha disposto che: «l'istanza è decisa con ordinanza separatamente dal giudizio principale, ovvero con la sentenza che definisce il giudizio».

Sulla portata applicativa di tale disposizione, si sono formati tre diversi orientamenti.

Un primo orientamento ritiene che si tratti di una vera e propria domanda di accesso ai documenti amministrativi, con qualificazione dell’ordinanza come avente natura decisoria (Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2019, n. 3936; Cons. Stato, sez. V, 21 maggio 2018, n. 3028). Tale ricostruzione valorizza la previsione che impone la notificazione dell’istanza all’Amministrazione e ai controinteressati. Essa comporta che: i) sul piano sostanziale, si applica integralmente la disciplina dell’accesso, anche per quanto attiene alla portata dell’accesso difensivo, nel senso che la documentazione può essere rilasciata «senza verificare la concreta pertinenza degli atti con l’oggetto della controversia principale» (Cons. Stato, sez. V, n. 3936/2019 cit.); ii) sul piano processuale, l’ordinanza è autonomamente impugnabile con ricorso al Consiglio di Stato ed è suscettibile di esecuzione coattiva con la proposizione del ricorso per ottemperanza.

Un secondo orientamento ritiene che si tratti di una istanza istruttoria, con qualificazione dell’ordinanza come avente anch’essa natura istruttoria (Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2020, n. 1878; Cons. Stato, sez. III, 21 ottobre 2015, n. 806; Cons. Stato, sez. IV, 12 luglio 2013, n. 3579). Tale ricostruzione valorizza il riferimento, contenuto nell’art. 116, alla «connessione» dell’istanza con il giudizio in corso, che presuppone sempre un rapporto di “strumentalità in senso stretto” della documentazione richiesta per la definizione del giudizio principale e tiene conto dell’esigenza di evitare il «rischio di impugnazioni autonome su ordinanze istruttorie che in seguito potrebbero rivelarsi comunque superflue, qualora l’esito del giudizio di primo grado fosse favorevole a prescindere» (Cons. Stato, sez. VI, ord. n. 8367/2022, cit.). Essa comporta che: i) sul piano sostanziale, non si applica la disciplina dell’accesso; ii) sul piano processuale, si applica il regime delle ordinanze istruttorie, con esclusione della loro appellabilità, con la possibilità della loro modifica e revoca da parte del giudice che le ha adottate (art. 177 c.p.c. e art. 39 c.p.a.) e con la possibilità, in caso di mancata esecuzione, di trarre argomenti di prova dal comportamento dell’amministrazione (art. 64, comma 4, c.p.a.).

Un terzo orientamento, intermedio, ritiene che vadano distinte due tipologie di ordinanze: i) la prima ha natura decisoria ed è appellabile, quando è adottata applicando la normativa in materia di accesso ai documenti «senza passare al vaglio della pertinenza dei documenti in relazione al giudizio in corso» (Cons. Stato, sez. VI, 14 agosto 2020, n. 5036; si v. anche Cons. Stato, sez. III, 7 ottobre 2020, n. 5944; Cons. Stato, IV, 27 ottobre 2011, n. 5765; Cons. Stato, sez. III, 25 giugno 2010, n. 4068); ii) la seconda ha natura istruttoria e non è appellabile, quando è adottata avendo riguardo alla rilevanza della documentazione ai fini della decisione.

L’Adunanza Plenaria ritiene che vada seguito l’orientamento per primo esposto, sia pure con alcune puntualizzazioni. La tesi della “natura istruttoria” dell’ordinanza non può essere seguita per le ragioni poste a sostegno della tesi della “natura decisoria”, che verranno indicate oltre. La tesi della “natura variabile” dell’ordinanza non può essere seguita, perché la natura decisoria o meno di un provvedimento giudiziale va stabilita sulla base di criteri normativi. La tesi della “natura decisoria”, con conseguente appellabilità dell’ordinanza, va seguita per le seguenti ragioni. In primo luogo – sulla base del criterio di interpretazione letterale – l’art. 116 c.p.a. prevede, al comma 2, che: i) «il ricorso di cui al comma 1» può essere proposto con istanza in pendenza di giudizio, il che evidenzia – per il rinvio effettuato all’accesso richiesto con ricorso autonomo – la sostanziale unitarietà del rimedio; ii) l’istanza deve essere notificata all’Amministrazione e agli eventuali controinteressati, che potrebbero anche essere diversi dalle parti già evocate in giudizio, il che evidenzia come il rispetto delle regole del contraddittorio sia coerente con la logica della natura decisoria dell’ordinanza. In secondo luogo – sulla base del criterio di interpretazione storica – le norme vigenti, rispetto a quelle contenute nell’art. 17, L. n. 15/2005, non qualificano più l’ordinanza in esame come «ordinanza istruttoria». In terzo luogo – sulla base del criterio di interpretazione sistematica – il codice del processo amministrativo ha disciplinato distintamente la fase dell’istruttoria e l’istanza di accesso in corso del giudizio, con la conseguenza che non si possono sovrapporre gli istituti in esame (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 19/2020 cit., sulle differenze tra l’accesso documentale e le esigenze istruttorie, anche nel processo civile). Del resto, la domanda di accesso ai documenti va rivolta all’Amministrazione e non al giudice, con impugnazione dell’eventuale provvedimento di rigetto nel rispetto del termine perentorio di trenta giorni, il che comporta che le istanze di accesso rivolte al giudice nel corso del processo vanno considerate vere e proprie istanze istruttorie. In quarto luogo – sulla base dei criteri di interpretazione conforme a Costituzione – è necessario assicurare il diritto di difesa (artt. 24 e 113 Cost.; art. 1 c.p.a.) dei controinteressati e della stessa pubblica amministrazione, qualora nel corso del processo sia emessa una ordinanza che accolga il ricorso ex art. 116, comma 2, c.p.a. e consenta l’ostensione dei documenti richiesti. Se non si permettesse, infatti, l’immediata appellabilità si potrebbe determinare, a seguito dell’ordine di esibizione e del conseguente obbligo della sua esecuzione, un pregiudizio irreversibile per il diritto alla riservatezza privata dei controinteressati e per le prerogative pubbliche dell’autorità che detiene i documenti. Si tenga conto, inoltre, che, potendo la pubblica amministrazione e i controinteressati non coincidere con le parti del processo principale, se non si assegnasse valenza decisoria all’ordinanza le suddette parti oltre a subire il pregiudizio sopra indicato potrebbero anche non essere legittimate a proporre impugnazione autonoma avverso la sentenza che definisce la controversia. Infine – sempre sulla base del criterio di interpretazione conforme a Costituzione – il principio del doppio grado di giudizio (art. 125 Cost.) impone, in presenza di provvedimenti aventi contenuto decisorio, di consentire alle parti di proporre appello (cfr. Corte cost., n. 8/1982; Cons. Stato, Ad. Plen., n 1/1978 cit.). Sulla base di quanto esposto, deve ritenersi che l’ordinanza che esamina l’istanza di accesso proposta nel corso di giudizio ha valenza decisoria, in quanto incide su situazioni giuridiche diverse rispetto a quelle oggetto del giudizio principale, così come avviene nel caso di ricorso proposto in via autonoma. Rispetto a quest’ultimo rimangono tuttavia talune peculiarità. La prima peculiarità risiede nel fatto che in questo caso si tratta di un accesso difensivo “qualificato” dalla circostanza che la documentazione richiesta deve essere strumentale alla tutela delle situazioni giuridiche che sono state fatte valere in uno specifico processo amministrativo in corso di svolgimento. In questo senso si spiega anche il riferimento alla «connessione», contenuto nel secondo comma dell’art. 116 c.p.a.. Si tratta di una “strumentalità in senso ampio”, in quanto la valutazione che deve essere effettuata dal giudice non è soltanto volta a verificare la possibile rilevanza del documento per la definizione del giudizio, ma può servire anche per risolvere in via stragiudiziale la controversia, per proporre una nuova impugnazione ovvero ancora una diversa domanda di tutela innanzi ad altra autorità giudiziaria. La seconda peculiarità risiede nel fatto che la disposizione in esame consente al giudice di non decidere in ordine all’istanza di accesso con ordinanza, ma di deciderla con la sentenza che definisce il giudizio. Questa previsione si spiega proprio nella logica della «connessione» della domanda con il giudizio in corso, che potrebbe indurre il giudice della causa principale a rinviare, ad esempio, la decisione incidentale sull’accesso al momento di adozione della sentenza, qualora ritenga che quella documentazione non risulti necessaria ai fini della definizione del giudizio. Tale soluzione consente maggiore celerità allo svolgimento del processo senza incidere sulla tutela della parte, in quanto la decisione è solo rinviata alla fase conclusiva del processo stesso.

L’Adunanza Plenaria, pertanto, ha affermato il principio di diritto secondo cui l’ordinanza resa nel corso del processo di primo grado sull’istanza di accesso documentale ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.a. è appellabile innanzi al Consiglio di Stato.

L’inottemperanza all'ordine di demolizione

Abusi edilizi, l'ordine di demolizione non ha bisogno di preavviso -  Edilportale

Cons. Stato, sez. II, 20 gennaio 2023, n. 714 

La sanzione acquisitiva al patrimonio dell’ente, in caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione dell’abuso edilizio, non può essere comminata nei confronti del proprietario del fondo incolpevole dell’abuso edilizio, cui è rimasto del tutto estraneo. Diversamente è a dire per la sanzione demolitoria, la cui natura “reale” e ripristinatoria dello stato dei luoghi per come preesistente all’illecito, la rende impermeabile al necessario previo accertamento di profili di responsabilità colpevole del proprietario, anche ove subentrato all’autore dell’abuso.

Un’interpretazione orientata al rispetto dei principi espressi dalle Corti nazionali e sovranazionali impone, ai fini dell’applicazione delle sanzioni amministrative privative della proprietà del bene, quale l’acquisizione al patrimonio comunale in conseguenza di inottemperanza a ingiunzione a demolire, la necessità della sussistenza dell’elemento soggettivo, almeno di carattere colposo, da parte del soggetto proprietario che le subisce, che deve essere messo a conoscenza, mediante la previa verifica dell’accertamento dell’inottemperanza, delle conseguenze della mancata demolizione spontanea, giusta la loro innegabile gravità. 

La necessità che il completo verificarsi dell’effetto traslativo formi oggetto di un atto amministrativo risponde all’esigenza di garantire il principio eurounitario di stabilità e certezza delle posizioni giuridiche e il principio di buona amministrazione. Per addivenire allo stesso vanno rispettati i passaggi procedurali a garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti, anche in funzione della maggiore economicità dell’esecuzione spontanea della intimata demolizione - essa, sì, sanzione reale - da parte dell’avente titolo. Il rispetto delle scansioni procedurali costituisce il giusto punto di incontro fra le contrapposte esigenze avute a mente dal legislatore, ovvero da un lato il rispetto dell’ordinato sviluppo del territorio, di cui il previo titolo edilizio costituisce garanzia primaria, dall’altro la tutela della proprietà.

Il Commissario ad acta, nominato allo scopo di dare seguito al procedimento demolitorio, senza effettuare la materiale demolizione, ritraendo i propri poteri e dall’atto di nomina e, quanto al contenuto, dalla sentenza, deve effettuare tutti gli adempimenti preliminari alla stessa, ivi compresa la messa a conoscenza formale delle conseguenze dell’inottemperanza mediante notifica del relativo verbale, che assume una valenza assimilabile alla contestazione di cui all’art. 14 della l. n. 689 del 1981. Solo all’esito della stessa possono essere irrogate le due sanzioni previste dell’acquisizione del bene al patrimonio, nel caso di specie dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, e del pagamento di sanzione pecuniaria, anche nella misura massima prevista.

Le procedure sotto soglia ed i criteri di aggiudicazione

L'Affidamento Diretto: quali regole?

La quinta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 782 del 24 gennaio 2023, è intervenuta in tema di procedure sotto soglia comunitaria, nell'ambito delle quali trova applicazione l’art. 36, comma 9-bis, D.L.vo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), secondo cui, “Fatto salvo quanto previsto all’articolo 95, comma 3, le stazioni appaltanti procedono all’aggiudicazione dei contratti di cui al presente articolo sulla base del criterio del minor prezzo ovvero sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”.

L’art. 36, comma 9-bis, D.L.vo n. 50/2016 e l’art. 1, D.L. 16 luglio 2020, n. 76 prevedono un regime speciale che rimette alla stazione appaltante la libera scelta tra i criteri di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa e del prezzo più basso, fatta eccezione per le sole ipotesi di obbligatorietà del primo criterio ex art. 95, comma 3, D.L.vo n. 50/2016. Ne consegue che non trova applicazione l’obbligo, ricavabile dall’art. 95, commi 4 e 5 , D.L.vo cit., di una motivazione specifica della scelta.

Al riguardo, secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. Plen., 21 maggio 2019, n. 8), dall’analisi dell’art. 95 del Codice dei contratti pubblici si ricava che nell’ambito della generale facoltà discrezionale nella scelta del criterio di aggiudicazione, a sua volta insita nell’esigenza di rimettere all’amministrazione la definizione delle modalità con cui soddisfare nel miglior modo l’interesse pubblico sotteso al contratto da affidare, le stazioni appaltanti sono nondimeno vincolate alla preferenza accordata dalla legge a criteri di selezione che abbiano riguardato non solo all’elemento prezzo, ma anche ad aspetti di carattere qualitativo delle offerte.

La preferenza per il criterio di scelta dell’offerta economicamente più vantaggiosa diviene obbligatoria per gli appalti di servizi enunciati al comma 3 dell’art. 95; resta tale, invece, per i servizi di cui al comma 4 – tra i quali si collocano proprio i ‘servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato, fatta eccezione per i servizi ad alta intensità di manodopera di cui al comma 3, lett. a). In sostanza, secondo l’Adunanza Plenaria, per i servizi standardizzati è consentito scegliere se procedere all’aggiudicazione con l’uno o l’altro criterio.

Se i servizi non sono standardizzati la preferenza va al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa

Rilevante, dunque, è stabilire quando si è in presenza di un servizio standardizzato.

Secondo l’indirizzo recentemente sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa, va qualificato servizio standardizzato “un servizio che, per sua natura ovvero per la prestazione richiesta dalla stazione appaltante all’affidatario negli atti di gara, non possa essere espletato che in unica modalità; in questo caso, in effetti, l’utilizzo del criterio di aggiudicazione del prezzo più basso è giustificata dall’impossibilità di una reale comparazione tra la qualità delle offerte in sede di giudizio” (Cons. Stato, sez. V, 12 febbraio 2020, n. 1063; Cons. Stato sez. V, 18 febbraio 2018, n. 1099; Cons. Stato, sez. III, 13 agosto 2018, n. 1609). È stato ritenuto legittimo, pertanto, il ricorso al criterio del minor prezzo, ai sensi dell’art. 95, comma 4, lett. b) del Codice dei contratti pubblici, in deroga alla generale preferenza accordata al criterio di aggiudicazione costituito dall’offerta economicamente più vantaggiosa, per l’affidamento di forniture e di servizi che sono, per loro natura, strettamente vincolati a precisi e inderogabili standard tecnici o contrattuali ovvero caratterizzati da elevata ripetitività e per i quali non vi sia quindi alcuna reale necessità di far luogo all’acquisizione di offerte differenziate (Cons. Stato, sez. III, 2 maggio 2017, n. 2014).

Nella specie, l’attività richiesta all’aggiudicatario consiste nell’esecuzione di una prestazione di natura intellettuale, ma avente ad oggetto l’esecuzione di attività ripetitive che non richiedono l’elaborazione di soluzioni personalizzate, diverse, caso per caso, per ciascun utente del servizio, contemplando, nella sostanza, l’esecuzione di meri compiti standardizzati. Secondo la definizione fornita dai dizionari, invero, il termine ‘standard’ viene attribuito ad un comportamento reso uguale ad un modello, privo di originalità. Né può essere predicato che la prestazione ‘intellettuale’ per sua natura non può essere standardizzata, atteso che quando un servizio di natura intellettuale si caratterizza, come quello di specie, nell’esecuzione di attività dello stesso tenore, senza che si provveda alla elaborazione di soluzioni personalizzate, tale prestazione va ritenuta espressione di uno ‘standard’.

Il Collegio condivide l’approdo argomentativo secondo cui il fatto che la prestazione oggetto dell’affidamento abbia natura intellettuale non osterebbe al ricorso del criterio del prezzo più basso, trattandosi di un appalto sotto soglia (art. 36 cit) e non rientrando nei casi di cui all’art. 95, comma 3, del Codice, poiché tale norma trova applicazione solo ai contratti ad alta intensità di manodopera, esclusi i servizi di tipo intellettuale. Inoltre, deve essere correttamente richiamato l’articolo 95, comma 4, del Codice, laddove prevede la possibilità di ricorrere al criterio del minor presso in caso di “ […] servizi e le forniture con le caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato, fatta eccezione per i servizi ad alta intensità di manodopera di cui al comma 3, lettera a)”. In base all’art. 95 cit., il fatto che si tratti di un servizio con caratteristiche standardizzate non è un elemento che di per sé consente l’affidamento al prezzo più basso, poiché questa possibilità è esclusa laddove si tratti di un servizio ad ‘alta intensità di manodopera’, secondo il parametro disposto dall’art. 50, comma 3, D.L.vo n. 50/2016, ossia i servizi nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50 per cento dell’importo totale del contratto. Tuttavia, questa disposizione non trova applicazione per i servizi aventi natura intellettuale, come chiaramente emerge dal tenore letterale della norma che recita: “Per gli affidamenti di contratti di concessione appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura intellettuale, con particolare riguardo a quelli relativi a contratti ad alta intensità di manodopera, i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti inseriscono, nel rispetto dei principi dell’Unione europea, specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato, prevedendo l’applicazione da parte dell’aggiudicatario, dei contratti collettivi di settore di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81. I servizi ad alta intensità di manodopera sono quelli nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50 per cento dell’importo totale del contratto”

Obblighi dichiarativi del socio persona giuridica

DICHIARAZIONE DI SUCCESSIONE - Bottaro Sabrina – Pratiche di Successione

E' indirizzo giurisprudenziale consolidato quello per cui gli obblighi dichiarativi del socio unico persona fisica non possano estendersi al socio unico persona giuridica, stante la chiarezza della previsione letterale della norma (in conformità al consolidato orientamento della giurisprudenza: cfr. Cons. Stato, V, 7 settembre 2020, n. 5370; 2 ottobre 2020, n. 5782).

L’art. 85, comma 1, D. Lgs. 50/2016 stabilisce che il DGUE deve contenere la dichiarazione che la società partecipante non si trova in alcuna delle condizioni che implicano l’esclusione di cui all’art. 80 del medesimo decreto

L’art. 80, comma 3, D. Lgs. 50/2016 prevede che le società di capitali partecipanti a una procedura di evidenza pubblica debbano essere escluse dalla gara, in caso di provvedimenti di cui all’art. 80 commi 1 e 2 che colpiscano (per quanto qui interessa) il socio unico persona fisica o i soggetti muniti di poteri di controllo sulla società, ovvero il socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci.

Pertanto, ai fini dell’ammissione alla gara, una società di capitali deve necessariamente presentare la dichiarazione attestante l’assenza delle cause di esclusione previste dall’art. 80 commi 1 e 2 cit., relativamente a tutti i soggetti indicati dall’art. 80 comma 3 cit., anche riguardo ai soggetti che esercitano sulle stesse poteri di controllo e al socio di maggioranza in ipotesi di società con meno di quattro soci.

Se è vero che l’art. 80 non ha imposto l’onere dichiarativo in capo al socio unico persona giuridica, ma solo a quello fisico, non è parimenti dubitabile che sussiste la necessità dichiarativa (di estraneità alle fattispecie di cui all’art. 80 commi 1 e 2 D. Lgs. 50/2016) che si impone a chiunque “esercita, ai sensi dell’art. 2359 c.c., un potere di controllo” ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 80, commi 1, 2 e 3 e 85.

In altri termini, la circostanza che il legislatore non abbia espressamente previsto obblighi dichiarativi in capo al socio unico persona giuridica non importa che non operi la ricordata disposizione di cui all’art. 80, comma terzo in capo a chi detiene il controllo societario, non avendo il legislatore affatto limitato gli obblighi dichiarativi alle sole persone fisiche che ricoprono il ruolo di socio unico nella compagine societaria, escludendoli invece per le persone giuridiche anche nei casi in cui queste ricoprano posizioni di controllo.

In definitiva, sussiste la necessità di rendere le dichiarazioni attestanti l’assenza di ipotesi di esclusione in capo a tutti i soggetti muniti di poteri di controllo, indipendentemente dal fatto che siano persone fisiche o giuridiche, come è stabilito dal legislatore.

La mancanza della dichiarazione è sanabile con il soccorso istruttorio.

L’art. 80 comma 3 stabilisce infatti che: «3. L’esclusione di cui ai commi 1 e 2 va disposta se la sentenza o il decreto ovvero la misura interdittiva sono stati emessi nei confronti: […] dei soggetti muniti di poteri […] di controllo […]».

L’esistenza di omissioni dichiarative non sempre comportano l'automatica esclusione della concorrente, alla luce delle previsioni di cui all’art. 83, comma 9, del Codice dei contratti pubblici e in conformità ai principi affermati dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen. 28 agosto 2020 n. 16, che ha definito il perimetro degli obblighi dichiarativi a carico degli operatori economici nelle pubbliche gare).

Infatti, l’art. 83, comma 9, stabilisce che: Le carenze di qualsiasi elemento possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma. In particolare, in caso di mancanza, incompletezza e di ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all’art. 85, con esclusione di quelle afferenti all’offerta economica e all’offerta tecnica, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere. In caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara. Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le carenze della documentazione che non consentono l’individuazione del contenuto e del soggetto responsabile della stessa.”.

 

Vincolo di aggiudicazione e unico centro decisionale

Foto gratuita stretta di mano primo piano di dirigenti

Con sentenza n. 652 del 19 gennaio 2023, la quinta sezione del Consiglio di Stato ha ricordato che, nel caso di appalto suddiviso in lotti, la preclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. m), D.L.vo 18 aprile 2016, n. 50 - che, come noto, considera causa di esclusione l’imputabilità a qualsiasi titolo, di diritto o di fatto, ad un “unico centro decisionale”, delle offerte proposte da distinti operatori economici nel contesto di una “medesima procedura di affidamento” - non opera, trattandosi di procedura unitaria per affidamenti formalmente distinti cioè di una gara plurima: sicché è naturalmente ammessa la presentazione di una offerta da parte di operatori anche riconducibili ad un unico centro decisionale, purché - come è chiaro - non riferita al medesimo lotto.

Ne discende, allora, per coerenza, che, nel caso in cui sia limitato “il numero di lotti che possono essere aggiudicati ad un solo offerente, l’offerta imputabile ad un unico centro decisionale debba essere parimenti considerata unica, in quanto imputabile ad un “solo offerente” sostanziale”: ciò nel senso che “se è il divieto (legale) di “offerte plurime” a giustificare, quando sia unica la gara, l’immediata esclusione del concorrente, è il divieto (facoltativo solo nell’an, ma autovincolante nel quomodo) di “aggiudicazioni plurime” ad imporre l’esclusione del concorrente che già si sia sostanzialmente aggiudicato un altro lotto” (così Cons. Stato, sez. V, 27 settembre 2021, n. 6841).

In definitiva, deve ritenersi che – ferma l’inapplicabilità dell’art. 80, comma 5, lett. m), cit. nei casi in cui, in presenza di più lotti, le offerte ritenute riferibili ad un unico centro decisionale siano presentate in lotti diversi (ciò perché, per consolidato intendimento, un bando di gara pubblica, suddiviso in lotti, costituisce un atto ad oggetto plurimo e determina l’indizione non di un’unica gara, ma di tante gare, per ognuna delle quali vi è formalmente un’autonoma procedura che si conclude con un’aggiudicazione”: si veda sul punto Cons. Stato, sez. V, 18 marzo 2021, n. 2350; nonché Cons. Stato, sez. V, 12 febbraio 2020, n. 1070) – allorquando sussista la previsione del vincolo di aggiudicazione, la riferibilità delle offerte ad un unico centro decisionale opera esclusivamente in riferimento a tale vincolo e determina la esclusione, nell’altro o negli altri lotti, del concorrente che “già si sia sostanzialmente aggiudicato un altro lotto”.

Si tratta, infatti, di previsioni che operano su piani distinti e che sono funzionali alla tutela di interessi diversi ed autonomi, giacché la generica attitudine proconcorrenziale del divieto ex lege di situazioni di collegamento che possano comportare l’imputabilità delle offerte ad un unico centro decisionale è riferita al singolo lotto, onde evitare che siano falsate le condizioni dell’offerta per un determinato affidamento, laddove la specifica finalità distributiva del c.d. vincolo di aggiudicazione è riferita al mercato nel quale operano le imprese partecipanti alla gara, onde consentire la distribuzione degli affidamenti tra un maggior numero di imprese (in tal senso è la consolidata giurisprudenza: si veda la citata sentenza 6481/2021).

Pertanto, la regola di cui all’art. 80, comma 5, lett. m) attiene esclusivamente alla tutela della intrinseca regolarità dell’offerta e della par condicio fra i concorrenti del singolo lotto, intesa quale singola e distinta procedura di aggiudicazione, e non già alla tutela - per il profilo della concorrenza nel mercato - dell’interesse ad una diversificazione (ossia alla non concentrazione) delle aggiudicazioni alle concorrenti nei diversi lotti.

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