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Il PEF nelle concessioni

Con sentenza n. 1042 del 30 gennaio 2023, la quinta sezione del Consiglio di Stato ha indicato la funzione che assume il piano economico finanziario (c.d. PEF) nelle concessioni di lavori e di servizi. Secondo la definizione legale contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. uu) [concessione di lavori] e vv) [concessione di servizi], del Codice dei contratti pubblici, formulata in piena coerenza con il diritto unionale, la concessione è un contratto a titolo oneroso che ha per oggetto l’affidamento, da parte della stazione appaltante, della esecuzione di lavori o della fornitura e gestione di servizi in cui il concessionario ricava il corrispettivo ad esso spettante per l’esecuzione del contratto esercitando il diritto a gestire le opere o i servizi e a trattenere i ricavi della gestione, assumendosi i rischi connessi a tale gestione (e principalmente, nella concessione di servizi in cui la parte relativa ai servizi è prevalente rispetto ai lavori, il rischio derivante dalla domanda del servizio).

La concessione, sia di lavori pubblici che di servizi, si caratterizza pertanto per un dato: la remunerazione degli investimenti compiuti dall’operatore economico privato e delle prestazioni rese nell’esecuzione della concessione è costituita dal diritto di gestire funzionalmente ed economicamente il servizio (o i servizi) erogati attraverso le opere pubbliche realizzate.

Il che significa, come d’altronde emerge agevolmente dalla lettura sia delle definizioni di cui all’art. 3, comma 1, lett. cit. [si vedano anche le lettere zz), aaa), bbb) e ccc), nelle quali è scolpita la definizione delle diverse tipologie di rischi trasferiti in capo al concessionario], che dell’art. 165 del Codice dei contratti pubblici, che i servizi in questione debbono avere una chiara natura imprenditoriale, nel senso che si rivolgono ad un mercato composto da una pluralità di utenti che ne domandano le prestazioni.

Il rischio assunto dal concessionario si valuta proprio intorno alla aleatorietà della domanda di prestazioni poiché l’errore di valutazione del livello di domanda attendibile evidentemente condiziona la remuneratività dell’investimento e misura la validità imprenditoriale dell’iniziativa economica.

Si tratta, come noto, di una tipologia di rischio imprenditoriale diversa da quella riscontrabile nel contratto di appalto (di lavori, servizi o forniture), proprio perché entra in giuoco un elemento imponderabile (cioè la domanda di prestazioni per quel servizio pubblico, non determinabile a priori); elemento che nell’appalto non compare.

In questo quadro, il piano economico finanziario ha la funzione di garantire l’equilibrio economico e finanziario dell’iniziativa (ossia la «contemporanea presenza delle condizioni di convenienza economica e sostenibilità finanziaria») attraverso la «corretta allocazione dei rischi» (art. 165, comma 2, cit.; corretta allocazione che può eventualmente essere temperata da un intervento finanziario posto a carico dell’amministrazione concedente), lungo tutto l’arco temporale della gestione. Se la concessione si qualifica per il trasferimento del rischio operativo dal concedente al concessionario, il PEF è lo strumento mediante il quale si attua la concreta distribuzione del rischio tra le parti del rapporto, la cui adeguatezza e sostenibilità deve essere valutata dall’amministrazione concedente alla luce delle discipline tecniche ed economiche applicabili e sulla base delle eventuali prescrizioni che la stessa amministrazione ha dettato con la lex specialis della procedura per la selezione del concessionario.

Controllo che non si svolge secondo gli schemi propri del giudizio di anomalia dell’offerta nelle procedure d’appalto, il cui oggetto è comunque circoscritto sia per la (di regola) limitata durata nel tempo dell’affidamento, sia per l’assenza di uno specifico rischio operativo e della domanda in capo all’appaltatore. L’assunzione del rischio imprenditoriale da parte del concessionario, i limiti entro i quali tale assunzione è ammissibile e non compromette il proficuo svolgimento dell’attività affidata al terzo [la convenienza economica e la sostenibilità finanziaria: art. 3, comma 1, lett. fff)], è l’oggetto delle valutazioni riservate all’amministrazione concedente.

La ricostruzione delineata riprende gli orientamenti più recenti (cfr. Cons. Stato, sez. V, 4 febbraio 2022, n. 795, ed ivi ulteriori precedenti conformi) che sottolineano come la funzione del PEF sia quella di dimostrare la concreta capacità dell’operatore economico di eseguire correttamente le prestazioni per l’intero arco temporale prescelto, attraverso la prospettazione di un equilibrio economico e finanziario di investimenti e connessa gestione che consenta all’amministrazione concedente di valutare l’adeguatezza dell’offerta e l’effettiva realizzabilità dell’oggetto della concessione (v. anche Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n.4760).

In altri termini il PEF è un documento che giustifica la sostenibilità dell’offerta, quale dimostrazione che l’impresa è in condizione di trarre utili tali da consentire la gestione proficua dell’attività (Cons. Stato, sez. V, 10 febbraio 2010, n. 653).

Diritto all'oblio

Con ordinanza n. 2893 del 31 gennaio 2023, la prima sezione civile della Corte di Cassazione è intervenuta in tema di tutela della riservatezza e del diritto all’oblio con particolare riferimento alla deindicizzazione degli articoli dai normali motori di ricerca.

Per «deindicizzazione» (c.d. delisting) si intende un'operazione sostanzialmente differente dalla rimozione o cancellazione di un contenuto: la deindicizzazione non lo elimina, ma lo rende non direttamente accessibile tramite motori di ricerca esterni all'archivio in cui quel contenuto si trova (cfr. Cass. civ., sez. I, 24 novembre 2022, n. 34658). Il diritto di ogni persona all'oblio, strettamente collegato ai diritti alla riservatezza e all'identità personale, deve essere bilanciato con il diritto della collettività all'informazione, sicché, anche prima dell'entrata in vigore dell'art. 17 Regolamento (UE) 2016/679, qualora sia pubblicato sul web un articolo di interesse generale ma lesivo dei diritti di un soggetto che non rivesta la qualità di personaggio pubblico, noto a livello nazionale, può essere disposta la deindicizzazione dell'articolo dal motore ricerca, al fine di evitare che un accesso agevolato, e protratto nel tempo, ai dati personali di tale soggetto, tramite il semplice utilizzo di parole chiave, possa ledere il diritto di quest'ultimo a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica, diversa da quella reale e costituente oggetto di notizie ormai superate (Cass. civ., sez. I, 31 maggio 2021, n. 15160). E ciò si spiega perché il diritto all'oblio consiste nel non rimanere esposti senza limiti di tempo ad una rappresentazione non più attuale della propria persona con pregiudizio alla reputazione ed alla riservatezza, a causa della ripubblicazione, a distanza di un importante intervallo temporale, di una notizia relativa a fatti del passato, ma la tutela del menzionato diritto va posta in bilanciamento con l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica, sicché nel caso di notizia pubblicata sul web, il medesimo può trovare soddisfazione anche nella sola deindicizzazione dell'articolo dai motori di ricerca (Cass. civ., sez. I, 19 maggio 2020, n. 9147). Anche le Sezioni Unite civili hanno avuto modo di interloquire, precisando che la menzione degli elementi identificativi delle persone protagonisti di fatti e vicende del passato è lecita solo nell'ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito. In caso contrario, prevale il diritto degli interessati di alla riservatezza rispetto ad avvenimenti ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva (Cass. civ., sez. un., 22 luglio 2019, n. 19681).

Il caso in esame, che sempre più frequentemente viene sottoposto al giudizio della Suprema Corte, riguarda l'archivio storico on line di un quotidiano, che per sua natura deve conservare esattamente la memoria degli articoli, a suo tempo legittimamente pubblicati nell'esercizio del diritto di cronaca giornalistica per l'interesse pubblico che circondava la vicenda (normalmente, e in questo caso, una indagine giudiziaria penale), e la legittima aspirazione delle persone coinvolte in quei fatti e in quell'indagine, una volta cessato il clamore e l'interesse pubblico per il decorso del tempo, a non vedersi consegnati al ricordo collettivo in quei termini, tanto più quando l'esito finale del processo penale li abbia visti scagionati e assolti. Rischio questo amplificato dalla potenza evocatrice dei motori di ricerca nell'ambiente internet che, tramite il collegamento alle loro generalità, permette con estrema facilità di rinvenire in rete, anche molti anni dopo, la traccia di quelle notizie e di quegli articoli. Si delinea quindi un conflitto tra gli interessi in gioco e si pone il problema del necessario bilanciamento fra il diritto all'informazione, nel caso, declinato nella forma della conservazione dell'archivio storico delle informazioni pubblicate, da un lato, e il diritto degli interessati a veder calare il velo dell'oblio sulle vicende giudiziarie che li avevano coinvolti. La Suprema Corte ritiene che l'equo contemperamento dei diritti in conflitto non possa essere raggiunto attraverso l'accoglimento della richiesta di cancellazione tout court degli articoli in questione dall'archivio on line del quotidiano, che annichilerebbe con l'iperprotezione dei diritti alla riservatezza degli interessati la funzione di memoria storica e documentale dell'archivio del giornale, che è oggetto di un rilevante interesse pubblico, di rilievo anch'esso costituzionale ex artt. 21 e 33 Cost., come rammenta esattamente la controricorrente. In altri termini, non sarebbe più possibile accedere all'originario contenuto degli articoli ad uno studioso, storico o sociologo, intenzionato a ricostruire l'andamento dei processi per reati contro la pubblica amministrazione in quell'epoca, per esaminare il contenuto delle accuse e il loro esito; e ciò anche se, poniamo, l'obiettivo della sua inchiesta fosse rivolto a dimostrare gli eccessi di repressione giudiziaria o gli abusi della carcerazione preventiva in un certo contesto spazio-temporale oppure l'atteggiamento, più o meno «giustizialista» o «garantista», della stampa e dell'opinione pubblica in quel contesto. Una via adeguata di contemperamento non è neppure quella della manipolazione del testo con l'introduzione di pseudonimi sostitutivi o omissioni nominative, pur astrattamente contemplata dal GDPR. Infatti, lo stesso art. 89 GDPR consente tali accorgimenti solo se le finalità in questione possano essere conseguite in tal modo e non è questo il caso. La memoria storica dell'archivio diverrebbe incompleta e falsata e così se ne perderebbe la funzione.

Non è così per la richiesta di aggiornamento mediante la mera apposizione agli articoli, su istanza dell'interessato, di una nota informativa volta a dar conto del successivo esito dei procedimenti giudiziari con l'assoluzione degli interessati e il risarcimento del danno per ingiusta detenzione. In tal modo l'identità dell'articolo, che in sé e per sé rimane intonso, è adeguatamente preservata a fini di ricerca storico-documentaristica, ma al contempo vengono rispettati i fondamentali principi di minimizzazione ed esattezza sopra illustrati.

La soluzione accolta è inoltre conforme al principio di contestualizzazione e aggiornamento dell'informazione. Non si richiede infatti al gestore dell'archivio di attivarsi in via generale per l'aggiornamento delle informazioni alla luce degli sviluppi giudiziari successivi, che genererebbe effettivamente costi ingenti e insostenibili, incompatibili con la persistente economicità degli archivi, ma solo di corrispondere senza ritardo a puntuali e specifiche richieste degli interessati, documentalmente suffragate, non solo con la deindicizzazione ma anche con l'apposizione di una breve nota informativa sull'esito finale della vicenda giudiziaria, in calce o a margine della pagina ove figura l'articolo.

La regola fondamentale per ogni bilanciamento di diritti richiede la valutazione comparativa della gravità del sacrificio imposto agli interessi in conflitto: la normale tollerabilità di una ingerenza nel diritto altrui, secondo una risalente ma autorevolissima dottrina, va accertata anche alla luce dei costi necessari per prevenirla. E nel caso è sufficiente un costo modesto (l'inserzione di una breve nota in calce o a margine e solo su richiesta di parte, che non altera la funzione tipica dell'archivio) per la prevenzione di un pregiudizio ben più consistente per l'interessato. Tale modesto sacrificio ben può essere accollato a chi gestisce l'impresa giornalistica, in logica di profitto, quale onere accessorio all'attività imprenditoriale, che scatta solo se ed in quanto l'interessato richieda la rettifica esplicativa del dato personale e l'inesattezza del dato viene dedotta sulla base di accertamenti obiettivi e incontrovertibili quali quelli provenienti da un documentato accertamento giudiziario passato in giudicato. Naturalmente questa tutela si aggiunge a quella consistente nella deindicizzazione.

La Suprema Corte, al termine, ha enunciato il seguente principio di diritto: in tema di trattamento dei dati personali e di diritto all'oblio, è lecita la permanenza di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, nell'archivio informatico di un quotidiano, relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di una inchiesta giudiziaria, poi sfociata nell'assoluzione dell'imputato, purché, a richiesta dell'interessato, l'articolo sia deindicizzato e non sia reperibile attraverso i comuni motori di ricerca, ma solo attraverso l'archivio storico del quotidiano e purché, a richiesta documentata dell'interessato, all'articolo sia apposta una sintetica nota informativa, a margine o in calce, che dia conto dell'esito finale del procedimento giudiziario in forza di provvedimenti passati in giudicato, in tal modo contemperandosi in modo bilanciato il diritto ex art. 21 Cost. della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita lesione della propria immagine sociale.

Appalti - il ricorso cumulativo

Con sentenza n. 1120 del 1° febbraio 2023, la terza sezione del Consiglio di Stato ha precisato i limiti della proponibilità del ricorso c.d. cumulativo.

L’art. 120, comma 11-bis, c.p.a. ammette l’impugnazione con ricorso “cumulativo”. Quest’ultimo termine è stato utilizzato dal codice nel comune significato tecnico, ed indica l’unitaria impugnazione di più provvedimenti lesivi.

Va, allora, chiarito il significato delle parole “avverso lo stesso atto”, presenti nel citato comma al fine di circoscrivere l’ammissibilità del ricorso cumulativo, che a prima vista appaiono contraddirne la possibilità stessa.

Invero, la previsione non può che alludere ai casi in cui più lotti d’una stessa gara siano regolati, sotto qualche profilo comune, da un unico atto endoprocedimentale (atto non “plurimo”, come l’impugnato provvedimento dipanantesi in varie aggiudicazioni, bensì “ad oggetto plurimo” con riguardo ai lotti: come il bando, il disciplinare di gara, la composizione della commissione giudicatrice, la determinazione di criteri di valutazione delle offerte tecniche, ecc.) il quale si assume viziato, e che può essere immediatamente gravato ove lesivo o – più spesso - viziare per derivazione le aggiudicazioni finali, per l’appunto impugnate con unico ricorso.

In sintesi, l’art. 120, comma 11-bis, cit.:

(i) presuppone, onde disciplinarlo, il ricorso avverso più determinazioni provvedimentali lesive (appunto “cumulativo”) relative a lotti afferenti a un’unica formale gara;

(ii) ne regolamenta l’ammissibilità, prescrivendo due presupposti: il primo consiste negli “identici motivi di ricorso”, mentre il secondo, compendiato dall’espressione “avverso lo stesso atto”, va inteso in senso procedimentale, alludendo ad atti diversi dall’aggiudicazione (talune difformi pronunce sul punto incorrono nella contraddizione suaccennata, senza risolverla in modo convincente col riferimento all’atto d’aggiudicazione unico in senso esclusivamente formale), i quali nelle fasi iniziali della gara ben possono essere unitari e riguardare più lotti.

In conclusione, possono impugnarsi i verbali e le determinazioni provvedimentali lesive

E' appellabile l'ordinanza Tar sull'istanza di accesso agli atti in corso di giudizio

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 4 del 24 gennaio 2023, ha affrontato la questione dell’appellabilità dell’ordinanza del Tar che decide in ordine ad una istanza di accesso ai documenti amministrativi presentata nel corso del giudizio.

Il comma 2 dell’art. 116, D.L.vo 2 luglio 2010, n. 104 prevede che: «in pendenza di un giudizio cui la richiesta di accesso è connessa il ricorso di cui al comma 1 può essere proposto con istanza depositata presso la segreteria della Sezione cui è assegnato il ricorso principale previa notificazione all’amministrazione e agli eventuali controinteressati». La stessa norma ha disposto che: «l'istanza è decisa con ordinanza separatamente dal giudizio principale, ovvero con la sentenza che definisce il giudizio».

Sulla portata applicativa di tale disposizione, si sono formati tre diversi orientamenti.

Un primo orientamento ritiene che si tratti di una vera e propria domanda di accesso ai documenti amministrativi, con qualificazione dell’ordinanza come avente natura decisoria (Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2019, n. 3936; Cons. Stato, sez. V, 21 maggio 2018, n. 3028). Tale ricostruzione valorizza la previsione che impone la notificazione dell’istanza all’Amministrazione e ai controinteressati. Essa comporta che: i) sul piano sostanziale, si applica integralmente la disciplina dell’accesso, anche per quanto attiene alla portata dell’accesso difensivo, nel senso che la documentazione può essere rilasciata «senza verificare la concreta pertinenza degli atti con l’oggetto della controversia principale» (Cons. Stato, sez. V, n. 3936/2019 cit.); ii) sul piano processuale, l’ordinanza è autonomamente impugnabile con ricorso al Consiglio di Stato ed è suscettibile di esecuzione coattiva con la proposizione del ricorso per ottemperanza.

Un secondo orientamento ritiene che si tratti di una istanza istruttoria, con qualificazione dell’ordinanza come avente anch’essa natura istruttoria (Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2020, n. 1878; Cons. Stato, sez. III, 21 ottobre 2015, n. 806; Cons. Stato, sez. IV, 12 luglio 2013, n. 3579). Tale ricostruzione valorizza il riferimento, contenuto nell’art. 116, alla «connessione» dell’istanza con il giudizio in corso, che presuppone sempre un rapporto di “strumentalità in senso stretto” della documentazione richiesta per la definizione del giudizio principale e tiene conto dell’esigenza di evitare il «rischio di impugnazioni autonome su ordinanze istruttorie che in seguito potrebbero rivelarsi comunque superflue, qualora l’esito del giudizio di primo grado fosse favorevole a prescindere» (Cons. Stato, sez. VI, ord. n. 8367/2022, cit.). Essa comporta che: i) sul piano sostanziale, non si applica la disciplina dell’accesso; ii) sul piano processuale, si applica il regime delle ordinanze istruttorie, con esclusione della loro appellabilità, con la possibilità della loro modifica e revoca da parte del giudice che le ha adottate (art. 177 c.p.c. e art. 39 c.p.a.) e con la possibilità, in caso di mancata esecuzione, di trarre argomenti di prova dal comportamento dell’amministrazione (art. 64, comma 4, c.p.a.).

Un terzo orientamento, intermedio, ritiene che vadano distinte due tipologie di ordinanze: i) la prima ha natura decisoria ed è appellabile, quando è adottata applicando la normativa in materia di accesso ai documenti «senza passare al vaglio della pertinenza dei documenti in relazione al giudizio in corso» (Cons. Stato, sez. VI, 14 agosto 2020, n. 5036; si v. anche Cons. Stato, sez. III, 7 ottobre 2020, n. 5944; Cons. Stato, IV, 27 ottobre 2011, n. 5765; Cons. Stato, sez. III, 25 giugno 2010, n. 4068); ii) la seconda ha natura istruttoria e non è appellabile, quando è adottata avendo riguardo alla rilevanza della documentazione ai fini della decisione.

L’Adunanza Plenaria ritiene che vada seguito l’orientamento per primo esposto, sia pure con alcune puntualizzazioni. La tesi della “natura istruttoria” dell’ordinanza non può essere seguita per le ragioni poste a sostegno della tesi della “natura decisoria”, che verranno indicate oltre. La tesi della “natura variabile” dell’ordinanza non può essere seguita, perché la natura decisoria o meno di un provvedimento giudiziale va stabilita sulla base di criteri normativi. La tesi della “natura decisoria”, con conseguente appellabilità dell’ordinanza, va seguita per le seguenti ragioni. In primo luogo – sulla base del criterio di interpretazione letterale – l’art. 116 c.p.a. prevede, al comma 2, che: i) «il ricorso di cui al comma 1» può essere proposto con istanza in pendenza di giudizio, il che evidenzia – per il rinvio effettuato all’accesso richiesto con ricorso autonomo – la sostanziale unitarietà del rimedio; ii) l’istanza deve essere notificata all’Amministrazione e agli eventuali controinteressati, che potrebbero anche essere diversi dalle parti già evocate in giudizio, il che evidenzia come il rispetto delle regole del contraddittorio sia coerente con la logica della natura decisoria dell’ordinanza. In secondo luogo – sulla base del criterio di interpretazione storica – le norme vigenti, rispetto a quelle contenute nell’art. 17, L. n. 15/2005, non qualificano più l’ordinanza in esame come «ordinanza istruttoria». In terzo luogo – sulla base del criterio di interpretazione sistematica – il codice del processo amministrativo ha disciplinato distintamente la fase dell’istruttoria e l’istanza di accesso in corso del giudizio, con la conseguenza che non si possono sovrapporre gli istituti in esame (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 19/2020 cit., sulle differenze tra l’accesso documentale e le esigenze istruttorie, anche nel processo civile). Del resto, la domanda di accesso ai documenti va rivolta all’Amministrazione e non al giudice, con impugnazione dell’eventuale provvedimento di rigetto nel rispetto del termine perentorio di trenta giorni, il che comporta che le istanze di accesso rivolte al giudice nel corso del processo vanno considerate vere e proprie istanze istruttorie. In quarto luogo – sulla base dei criteri di interpretazione conforme a Costituzione – è necessario assicurare il diritto di difesa (artt. 24 e 113 Cost.; art. 1 c.p.a.) dei controinteressati e della stessa pubblica amministrazione, qualora nel corso del processo sia emessa una ordinanza che accolga il ricorso ex art. 116, comma 2, c.p.a. e consenta l’ostensione dei documenti richiesti. Se non si permettesse, infatti, l’immediata appellabilità si potrebbe determinare, a seguito dell’ordine di esibizione e del conseguente obbligo della sua esecuzione, un pregiudizio irreversibile per il diritto alla riservatezza privata dei controinteressati e per le prerogative pubbliche dell’autorità che detiene i documenti. Si tenga conto, inoltre, che, potendo la pubblica amministrazione e i controinteressati non coincidere con le parti del processo principale, se non si assegnasse valenza decisoria all’ordinanza le suddette parti oltre a subire il pregiudizio sopra indicato potrebbero anche non essere legittimate a proporre impugnazione autonoma avverso la sentenza che definisce la controversia. Infine – sempre sulla base del criterio di interpretazione conforme a Costituzione – il principio del doppio grado di giudizio (art. 125 Cost.) impone, in presenza di provvedimenti aventi contenuto decisorio, di consentire alle parti di proporre appello (cfr. Corte cost., n. 8/1982; Cons. Stato, Ad. Plen., n 1/1978 cit.). Sulla base di quanto esposto, deve ritenersi che l’ordinanza che esamina l’istanza di accesso proposta nel corso di giudizio ha valenza decisoria, in quanto incide su situazioni giuridiche diverse rispetto a quelle oggetto del giudizio principale, così come avviene nel caso di ricorso proposto in via autonoma. Rispetto a quest’ultimo rimangono tuttavia talune peculiarità. La prima peculiarità risiede nel fatto che in questo caso si tratta di un accesso difensivo “qualificato” dalla circostanza che la documentazione richiesta deve essere strumentale alla tutela delle situazioni giuridiche che sono state fatte valere in uno specifico processo amministrativo in corso di svolgimento. In questo senso si spiega anche il riferimento alla «connessione», contenuto nel secondo comma dell’art. 116 c.p.a.. Si tratta di una “strumentalità in senso ampio”, in quanto la valutazione che deve essere effettuata dal giudice non è soltanto volta a verificare la possibile rilevanza del documento per la definizione del giudizio, ma può servire anche per risolvere in via stragiudiziale la controversia, per proporre una nuova impugnazione ovvero ancora una diversa domanda di tutela innanzi ad altra autorità giudiziaria. La seconda peculiarità risiede nel fatto che la disposizione in esame consente al giudice di non decidere in ordine all’istanza di accesso con ordinanza, ma di deciderla con la sentenza che definisce il giudizio. Questa previsione si spiega proprio nella logica della «connessione» della domanda con il giudizio in corso, che potrebbe indurre il giudice della causa principale a rinviare, ad esempio, la decisione incidentale sull’accesso al momento di adozione della sentenza, qualora ritenga che quella documentazione non risulti necessaria ai fini della definizione del giudizio. Tale soluzione consente maggiore celerità allo svolgimento del processo senza incidere sulla tutela della parte, in quanto la decisione è solo rinviata alla fase conclusiva del processo stesso.

L’Adunanza Plenaria, pertanto, ha affermato il principio di diritto secondo cui l’ordinanza resa nel corso del processo di primo grado sull’istanza di accesso documentale ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.a. è appellabile innanzi al Consiglio di Stato.

L’inottemperanza all'ordine di demolizione

Abusi edilizi, l'ordine di demolizione non ha bisogno di preavviso -  Edilportale

Cons. Stato, sez. II, 20 gennaio 2023, n. 714 

La sanzione acquisitiva al patrimonio dell’ente, in caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione dell’abuso edilizio, non può essere comminata nei confronti del proprietario del fondo incolpevole dell’abuso edilizio, cui è rimasto del tutto estraneo. Diversamente è a dire per la sanzione demolitoria, la cui natura “reale” e ripristinatoria dello stato dei luoghi per come preesistente all’illecito, la rende impermeabile al necessario previo accertamento di profili di responsabilità colpevole del proprietario, anche ove subentrato all’autore dell’abuso.

Un’interpretazione orientata al rispetto dei principi espressi dalle Corti nazionali e sovranazionali impone, ai fini dell’applicazione delle sanzioni amministrative privative della proprietà del bene, quale l’acquisizione al patrimonio comunale in conseguenza di inottemperanza a ingiunzione a demolire, la necessità della sussistenza dell’elemento soggettivo, almeno di carattere colposo, da parte del soggetto proprietario che le subisce, che deve essere messo a conoscenza, mediante la previa verifica dell’accertamento dell’inottemperanza, delle conseguenze della mancata demolizione spontanea, giusta la loro innegabile gravità. 

La necessità che il completo verificarsi dell’effetto traslativo formi oggetto di un atto amministrativo risponde all’esigenza di garantire il principio eurounitario di stabilità e certezza delle posizioni giuridiche e il principio di buona amministrazione. Per addivenire allo stesso vanno rispettati i passaggi procedurali a garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti, anche in funzione della maggiore economicità dell’esecuzione spontanea della intimata demolizione - essa, sì, sanzione reale - da parte dell’avente titolo. Il rispetto delle scansioni procedurali costituisce il giusto punto di incontro fra le contrapposte esigenze avute a mente dal legislatore, ovvero da un lato il rispetto dell’ordinato sviluppo del territorio, di cui il previo titolo edilizio costituisce garanzia primaria, dall’altro la tutela della proprietà.

Il Commissario ad acta, nominato allo scopo di dare seguito al procedimento demolitorio, senza effettuare la materiale demolizione, ritraendo i propri poteri e dall’atto di nomina e, quanto al contenuto, dalla sentenza, deve effettuare tutti gli adempimenti preliminari alla stessa, ivi compresa la messa a conoscenza formale delle conseguenze dell’inottemperanza mediante notifica del relativo verbale, che assume una valenza assimilabile alla contestazione di cui all’art. 14 della l. n. 689 del 1981. Solo all’esito della stessa possono essere irrogate le due sanzioni previste dell’acquisizione del bene al patrimonio, nel caso di specie dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, e del pagamento di sanzione pecuniaria, anche nella misura massima prevista.

Le procedure sotto soglia ed i criteri di aggiudicazione

L'Affidamento Diretto: quali regole?

La quinta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 782 del 24 gennaio 2023, è intervenuta in tema di procedure sotto soglia comunitaria, nell'ambito delle quali trova applicazione l’art. 36, comma 9-bis, D.L.vo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), secondo cui, “Fatto salvo quanto previsto all’articolo 95, comma 3, le stazioni appaltanti procedono all’aggiudicazione dei contratti di cui al presente articolo sulla base del criterio del minor prezzo ovvero sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”.

L’art. 36, comma 9-bis, D.L.vo n. 50/2016 e l’art. 1, D.L. 16 luglio 2020, n. 76 prevedono un regime speciale che rimette alla stazione appaltante la libera scelta tra i criteri di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa e del prezzo più basso, fatta eccezione per le sole ipotesi di obbligatorietà del primo criterio ex art. 95, comma 3, D.L.vo n. 50/2016. Ne consegue che non trova applicazione l’obbligo, ricavabile dall’art. 95, commi 4 e 5 , D.L.vo cit., di una motivazione specifica della scelta.

Al riguardo, secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. Plen., 21 maggio 2019, n. 8), dall’analisi dell’art. 95 del Codice dei contratti pubblici si ricava che nell’ambito della generale facoltà discrezionale nella scelta del criterio di aggiudicazione, a sua volta insita nell’esigenza di rimettere all’amministrazione la definizione delle modalità con cui soddisfare nel miglior modo l’interesse pubblico sotteso al contratto da affidare, le stazioni appaltanti sono nondimeno vincolate alla preferenza accordata dalla legge a criteri di selezione che abbiano riguardato non solo all’elemento prezzo, ma anche ad aspetti di carattere qualitativo delle offerte.

La preferenza per il criterio di scelta dell’offerta economicamente più vantaggiosa diviene obbligatoria per gli appalti di servizi enunciati al comma 3 dell’art. 95; resta tale, invece, per i servizi di cui al comma 4 – tra i quali si collocano proprio i ‘servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato, fatta eccezione per i servizi ad alta intensità di manodopera di cui al comma 3, lett. a). In sostanza, secondo l’Adunanza Plenaria, per i servizi standardizzati è consentito scegliere se procedere all’aggiudicazione con l’uno o l’altro criterio.

Se i servizi non sono standardizzati la preferenza va al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa

Rilevante, dunque, è stabilire quando si è in presenza di un servizio standardizzato.

Secondo l’indirizzo recentemente sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa, va qualificato servizio standardizzato “un servizio che, per sua natura ovvero per la prestazione richiesta dalla stazione appaltante all’affidatario negli atti di gara, non possa essere espletato che in unica modalità; in questo caso, in effetti, l’utilizzo del criterio di aggiudicazione del prezzo più basso è giustificata dall’impossibilità di una reale comparazione tra la qualità delle offerte in sede di giudizio” (Cons. Stato, sez. V, 12 febbraio 2020, n. 1063; Cons. Stato sez. V, 18 febbraio 2018, n. 1099; Cons. Stato, sez. III, 13 agosto 2018, n. 1609). È stato ritenuto legittimo, pertanto, il ricorso al criterio del minor prezzo, ai sensi dell’art. 95, comma 4, lett. b) del Codice dei contratti pubblici, in deroga alla generale preferenza accordata al criterio di aggiudicazione costituito dall’offerta economicamente più vantaggiosa, per l’affidamento di forniture e di servizi che sono, per loro natura, strettamente vincolati a precisi e inderogabili standard tecnici o contrattuali ovvero caratterizzati da elevata ripetitività e per i quali non vi sia quindi alcuna reale necessità di far luogo all’acquisizione di offerte differenziate (Cons. Stato, sez. III, 2 maggio 2017, n. 2014).

Nella specie, l’attività richiesta all’aggiudicatario consiste nell’esecuzione di una prestazione di natura intellettuale, ma avente ad oggetto l’esecuzione di attività ripetitive che non richiedono l’elaborazione di soluzioni personalizzate, diverse, caso per caso, per ciascun utente del servizio, contemplando, nella sostanza, l’esecuzione di meri compiti standardizzati. Secondo la definizione fornita dai dizionari, invero, il termine ‘standard’ viene attribuito ad un comportamento reso uguale ad un modello, privo di originalità. Né può essere predicato che la prestazione ‘intellettuale’ per sua natura non può essere standardizzata, atteso che quando un servizio di natura intellettuale si caratterizza, come quello di specie, nell’esecuzione di attività dello stesso tenore, senza che si provveda alla elaborazione di soluzioni personalizzate, tale prestazione va ritenuta espressione di uno ‘standard’.

Il Collegio condivide l’approdo argomentativo secondo cui il fatto che la prestazione oggetto dell’affidamento abbia natura intellettuale non osterebbe al ricorso del criterio del prezzo più basso, trattandosi di un appalto sotto soglia (art. 36 cit) e non rientrando nei casi di cui all’art. 95, comma 3, del Codice, poiché tale norma trova applicazione solo ai contratti ad alta intensità di manodopera, esclusi i servizi di tipo intellettuale. Inoltre, deve essere correttamente richiamato l’articolo 95, comma 4, del Codice, laddove prevede la possibilità di ricorrere al criterio del minor presso in caso di “ […] servizi e le forniture con le caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato, fatta eccezione per i servizi ad alta intensità di manodopera di cui al comma 3, lettera a)”. In base all’art. 95 cit., il fatto che si tratti di un servizio con caratteristiche standardizzate non è un elemento che di per sé consente l’affidamento al prezzo più basso, poiché questa possibilità è esclusa laddove si tratti di un servizio ad ‘alta intensità di manodopera’, secondo il parametro disposto dall’art. 50, comma 3, D.L.vo n. 50/2016, ossia i servizi nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50 per cento dell’importo totale del contratto. Tuttavia, questa disposizione non trova applicazione per i servizi aventi natura intellettuale, come chiaramente emerge dal tenore letterale della norma che recita: “Per gli affidamenti di contratti di concessione appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura intellettuale, con particolare riguardo a quelli relativi a contratti ad alta intensità di manodopera, i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti inseriscono, nel rispetto dei principi dell’Unione europea, specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato, prevedendo l’applicazione da parte dell’aggiudicatario, dei contratti collettivi di settore di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81. I servizi ad alta intensità di manodopera sono quelli nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50 per cento dell’importo totale del contratto”

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