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Permesso di costruire e silenzio assenso

 

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Il titolo edilizio si forma per silenzio-assenso a fronte del decorso del tempo previsto dalla norma, indipendentemente dalla conformità urbanistico edilizia dell’intervento.

Il Collegio aderisce al recente orientamento giurisprudenziale secondo cui non è necessaria la conformità dell’intervento alla normativa urbanistica ai fini della formazione del silenzio-assenso.

Il titolo edilizio si forma, quindi, per il solo decorso del tempo salva la possibilità per l’amministrazione, qualora accerti che l’intervento non sia conforme, di intervenire esercitando il potere di autotutela.

Si precisa che, diversamente opinando, la norma che prevede la formazione del silenzio-assenso sarebbe di scarsa utilità per colui che, dopo aver proposto la domanda di rilascio del permesso di costruire, non riceva alcuna risposta dall’amministrazione posto che quest’ultima potrebbe sempre intervenire senza oneri e vincoli procedimentali, disconoscendo in qualunque tempo gli effetti della domanda stessa.

A supporto di questa conclusione viene anche richiamato l’art. 2, comma 8-bis, della legge n. 241 del 1990 (introdotto dal decreto-legge n. 76 del 2020, convertito dalla legge n. 120 del 2020), nella parte in cui afferma che “Le determinazioni relative […] agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli […] 20, comma 1, [...] sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall'articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”.

Questa norma, precisando che l’amministrazione può intervenire in autotutela per annullare il titolo tacito illegittimo, ammette infatti che il silenzio-assenso possa formarsi anche quando la domanda non sia conforme alla vigente normativa (mentre la soluzione opposta, che esclude che sulla domanda riguardante un intervento non conforme possa formarsi il silenzio-assenso, sottrae questa fattispecie alla disciplina della annullabilità) (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 14 marzo 2023, n. 2661; id., 8 luglio 2022, n. 5746; Tar Lombardia, Milano, sez. II, sent. n. 2068/2023).

Lo ha affermato il T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 27 febbraio 2024, sent. n. 518

Revoca dell'aggiudicazione dopo la sottoscrizione di un accordo quadro

Veniva indetta una procedura per l'aggiudicazione di un servizio integrato (servizio di lavanolo). Stipulata la convenzione (accordo quadro), l'aggiudicatario si obbligava ad accettare la stipula dei singoli contratti di fornitura con l'Azienda sanitaria destinataria del servizio correlato. Aggiudicato il primo lotto – e conclusa la relativa convenzione – l'Azienda sanitaria interessata ha aderito alla convenzione, inviando per la sottoscrizione lo schema di contratto attuativo.

Il contratto attuativo non veniva sottoscritto dall'aggiudicataria, pertanto la stazione appaltante provvedeva a revocare l'aggiudicazione della convenzione (accordo quadro). In particolare,  venivano indicate plurime ragioni a sostegno della revoca: (i) aumento dei costi delle materie prime e dell'energia; (ii) criticità del modello operativo posto a base di gara; (iii) rifiuto espresso dell'o.e. a sottoscrivere il contratto attuativo.

Avverso tale atto, l'aggiudicataria ha presentato ricorso, contestando, in primis, l'intervenuta evoluzione del rapporto dalla fase pubblicistica a quella privatistica - per effetto della stipula della convenzione e della successiva adesione dell'azienda sanitaria beneficiaria della fornitura -, contestando la carenza dei presupposti per l'esercizio dei poteri di autotutela alla stregua dei principi indicati dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 14/2014.

I giudici amministrativi hanno accolto il ricorso.

 

L'accordo quadro non costituisce un appalto in senso stretto, in quanto da sé solo non comporta diritti né immediati obblighi di esecuzione. Esso è riconducibile alla categoria civilistica del contratto normativo, in quanto detta le condizioni dei successivi contratti integrativi, ovvero reca un programma contrattuale per quanto destinato a inverarsi e completarsi nel contratto attuativo a valle.

Una volta sottoscritto il contratto e reciprocamente accettato il programma negoziale su base (tendenzialmente) paritetica, l'interesse pubblico, che abbia già trovato sede all'interno della piattaforma convenzionale, potrà essere salvaguardato dall'amministrazione solo mediante un'autotutela di pari matrice privatistica, vale a dire con lo speciale diritto potestativo di recesso disciplinato dal codice dei contratti pubblici.

L'aumento dei costi e il mutato contesto di mercato non costituiscono motivo di revoca di un contratto quadro: , secondo il g.a., si tratta di profili di equilibrio contrattuale ed efficienza dello scambio il cui ambito di regolazione è da individuarsi nella convenzione stipulata, che ha recepito, a livello negoziale, gli importi dei prezzi di aggiudicazione dell'appalto.

Di conseguenza, di fronte a sopraggiunte ragioni di opportunità, contrarie al mantenimento di un assetto non più rispondente al fine primario dell'interesse pubblico, la tutela di quest'ultimo deve del pari esplicarsi attraverso rimedi negoziali.

Analogamente, la contestazione all'aggiudicataria di aver rifiutato la sottoscrizione del contratto di fornitura, esorbita dalla fase pubblicistica della procedura, attenendo, piuttosto, al piano delle obbligazioni traenti titolo dal contratto.

I Giudici richiamano i principi enucleati dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 14/2014, in base ai quali, dopo la stipulazione del contratto, “deve ritenersi insussistente (...) il potere di revoca, poiché: presupposto di questo potere è la diversa valutazione dell'interesse pubblico a causa di sopravvenienze; il medesimo presupposto è alla base del recesso in quanto potere contrattuale basato su sopravvenuti motivi di opportunità (...); la specialità della previsione del recesso di cui al citato art. 134 [in specie art. 109 d.lgs. 50/2016] del codice preclude, di conseguenza, l'esercizio della revoca”.

E' quanto affermato dal T.A.R. Piemonte con sentenza n. 155/2024.

 

 

Interdittiva antimafia

Controversie interdittiva antimafia - NewsTuttoGare

La consolidata giurisprudenza amministrativa ha chiarito che l'iscrizione nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (c.d. white list) è disciplinata dagli stessi principi che regolano l'interdittiva antimafia, in quanto si tratta di misure volte alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione (Cons. Stato, sez. III, 20 febbraio 2019, n. 1182). 

Escluso qualsivoglia automatismo tra l'adozione di un'interdittiva antimafia e la sua conseguente estensione alle imprese legate da vincoli associativi a quella attinta dalla prima misura, la giurisprudenza ha chiarito che uno degli indici del tentativo di infiltrazione mafiosa nell'attività d'impresa - di per sé sufficiente a giustificare l'emanazione di una interdittiva antimafia - è stato identificato nella instaurazione di rapporti commerciali o associativi tra un'impresa e una società già ritenuta esposta al rischio di influenza criminale (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. III, 26 maggio 2016, n. 2232).

La ratio di tale regola dev'essere, in particolare, rinvenuta nella valenza sintomatica (del rischio di collusioni illecite con organizzazioni mafiose) attribuibile a cointeressenze economiche particolarmente pregnanti tra un'impresa certamente gravata da controindicazioni antimafia e un'altra che fa affari con essa.

Perché possa presumersi il 'contagio' alla seconda impresa della 'mafiosità' della prima è, ovviamente, necessario che la natura, la consistenza e i contenuti delle modalità di collaborazione tra le due imprese siano idonei a rivelare il carattere illecito dei legami stretti tra i due operatori economici.

Laddove, in particolare, l'analisi dei rapporti tra le due imprese manifesti una plausibile condivisione di finalità illecite e una verosimile convergenza verso l'assoggettamento agli interessi criminali di organizzazioni mafiose, desumibili, ad esempio, dalla stabilità, dalla persistenza e dalla intensità dei vincoli associativi o delle relazioni commerciali, può presumersi l'esistenza di un sodalizio criminoso tra i due operatori.

Al contrario, nella misura in cui l'esame dei contatti tra le società riveli il carattere del tutto episodico, inconsistente o remoto delle relazioni d'impresa, deve escludersi l'automatico trasferimento delle controindicazioni antimafia dalla prima alla seconda società. Mentre, infatti, nella prima ipotesi la continuità e la particolare qualificazione della collaborazione tra le imprese giustifica il convincimento, seppur in termini prognostici e probabilistici, che l'impresa 'mafiosa' trasmetta alla seconda il suo corredo di controindicazioni antimafia, potendosi presumere che la prima scelga come partner un soggetto già colluso o, comunque, permeabile agli interessi criminali a cui essa resta assoggettata (o che, addirittura, interpreta e persegue), nel secondo caso, al contrario, il carattere del tutto sporadico e scarsamente significativo dei contatti tra i due operatori impedisce di formulare la predetta valutazione (in presenza di ulteriori e diversi indici sintomatici) (Cons. Stato, sez. III, 22 giugno 2016, n. 2774).

Lo ha affermato il Consiglio di Stato,Sez. III, con sentenza n. 2160 del 5 marzo 2024, intervenuta in materia di interdittiva antimafia.

Il vincolo di aggiudicazione

 

Suddivisione in lotti e applicazione del vincolo di aggiudicazione in caso  di imprese collegate

Il Consiglio di Stato ha affermato che deve essere la stazione appaltante a stabilire se, una volta introdotto un vincolo di partecipazione o di aggiudicazione, lo stesso trovi o meno applicazione anche per le imprese in rapporto di controllo/collegamento, ai sensi dell'art. 2359 c.c., ossia in situazione di "sostanziale identità soggettiva dal punto di vista economico e patrimoniale", dequotando per tale via il profilo formale della pluralità soggettiva per far valere, di contro, la sostanziale unitarietà della proposta negoziale (Cons. Stato, sez. V, 19 gennaio 2023, n. 652).

L’entrata in vigore dell’art. 58, comma 4, D.L.vo n. 36 del 2023 ha chiaramente previsto che la stazione appaltante può limitare il numero massimo di lotti per i quali è consentita l'aggiudicazione al medesimo concorrente per ragioni connesse alle caratteristiche della gara e all'efficienza della prestazione, oppure per ragioni inerenti al relativo mercato, anche a più concorrenti che versino in situazioni di controllo o collegamento ai sensi dell'art. 2359 c.c.. Al ricorrere delle medesime condizioni e ove necessario in ragione dell'elevato numero atteso di concorrenti può essere limitato anche il numero di lotti per i quali è possibile partecipare.

In ogni caso il bando o l'avviso di indizione della gara contengono l'indicazione della ragione specifica della scelta e prevedono il criterio non discriminatorio di selezione del lotto o dei lotti da aggiudicare al concorrente utilmente collocato per un numero eccedente tale limite. 

Il Consiglio di Stato, Sez. V, sent. n. 1956 del 29 febbraio 2024,   ha dunque aderito al recente orientamento (cfr. Cons. Stato, sez. V, 2 gennaio 2024, n. 59), secondo cui non può in generale ritenersi che la ratio proconcorrenziale dell'istituto della suddivisione in lotti, e dell'intera disciplina dei contratti pubblici, conduca necessariamente all'espansione del vincolo di partecipazione (nel silenzio della legge di gara).

Onere di impugnazione immediata delle clausole escludenti del bando di gara

Clausole immediatamente escludenti: sono legittime o nulle? - LavoriPubblici

 

Le clausole del bando di gara che, specificando a pena di esclusione i requisiti minimi di un prodotto, rendano l'oggetto dell'affidamento impossibile o illecito, in quanto il prodotto in questione non sia reperibile sul mercato, devono essere considerate escludenti e suscettibili di immediata e autonoma impugnativa a pena di inammissibilità del successivo ricorso proposto avverso il provvedimento di esclusione.

La società ricorrente ha impugnato la propria esclusione da una procedura ad evidenza pubblica tesa all'affidamento di servizi di ritiro, trasporto e smaltimento di rifiuti, unitamente alle clausole del capitolato di gara in base alle quali era stata disposta l'esclusione. La lex specialis, infatti, specificava, con riguardo all'offerta tecnica, le caratteristiche dei contenitori dei rifiuti sanitari quali requisiti minimi da rispettare a pena di esclusione.

Il ricorso è stato dichiarato inammissibile, giacché esso avrebbe dovuto essere tempestivamente esperito direttamente avverso il bando di gara e il relativo capitolato, nel termine decadenziale decorrente a partire dalla scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione. In tal senso, la pronuncia rileva che la ricorrente ha lamentato la radicale inesistenza del bene richiesto dalla S.A. ovvero della sua illiceità, affermandone la non reperibilità sul mercato ovvero, anche in caso di reperibilità, l'assenza di omologazione ai sensi della normativa ADR. Di talché, le clausole (tardivamente) impugnate sono state considerate come escludenti e dunque suscettibili di autonoma e immediata impugnazione.

A supporto di tale ricostruzione, è citata una recente pronuncia del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. III, 5 febbraio 2024, n. 1146) che, richiamando i principi di diritto già enunciati in precedenti sentenze (su tutte, Ad. Plen. n. 4/2018), ha compendiato le ipotesi di clausole escludenti suscettibili di immediata impugnazione, tra le quali risulta particolarmente rilevante, nel caso di specie, la previsione di «regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile (così l'Adunanza plenaria n. 3 del 2001)».

Lo ha stabilito il TAR Lombardia, Milano, sez. I, con la sentenza n. 376 del 15.02.2024.

La P.A. è obbligata a provvedere sull'istanza del privato

 

Il Tempo è Scaduto! Lettera a Conte

L’obbligo per la pubblica amministrazione di agire in via provvedimentale discende dall’art. 2, L. 7 agosto 1990, n. 241.

Per costante orientamento giurisprudenziale, costituisce principio generale, riconducibile ai canoni di trasparenza e buona amministrazione ex art. 97 Cost. ed alla disposizione normativa di cui all'art. 2, comma 3, L. n. 241/1990, quello secondo cui è obbligo della Pubblica Amministrazione adottare un provvedimento espresso sull'istanza del soggetto interessato (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 7955).

Ciò anche al fine di assicurare la trasparenza dell'azione e dei comportamenti dell'Amministrazione e favorire lo svolgimento imparziale del procedimento (cfr. C.G.A.R.S., 8 novembre 2005, n. 747).

L'obbligo dell'amministrazione pubblica di provvedere sulle istanze del privato con un provvedimento formale corrisponde ad un principio di civiltà giuridica, codificato dalla legge generale sul provvedimento amministrativo n. 241/1990, n. 241, art. 2, che trasmette un forte segnale in ordine alla doverosità dell'espresso agire della pubblica amministrazione, collegato al necessario raggiungimento della definizione, in senso positivo o negativo, di quella quota di interesse sostanziale concretamente messo in moto dall'atto di impulso del privato ed in esso soggettivizzata.

In presenza di una formale istanza l'Amministrazione è tenuta a concludere il procedimento, e ciò anche se ritiene che la domanda sia irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, non potendo rimanere inerte. Il legislatore, infatti, ha imposto al soggetto pubblico di rispondere alle istanze private, sancendo l'esistenza di un dovere che rileva ex se quale diretta attuazione dei principi di correttezza, buon andamento e trasparenza, consentendo altresì alle parti, attraverso l'emanazione di un provvedimento espresso, di tutelare in giudizio i propri interessi a fronte di provvedimenti ritenuti illegittimi (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. III, 23 febbraio 2022, n. 1283). 

Ogniqualvolta la realizzazione della pretesa sostanziale vantata dal privato dipenda dall'intermediazione del pubblico potere e da scelte discrezionali, l'Amministrazione, in particolare, è tenuta ad assumere una decisione espressa, anche qualora si faccia questione di procedimenti ad istanza di parte e l'organo procedente ravvisi ragioni ostative alla valutazione, nel merito, della relativa domanda: l'attuale formulazione dell'art. 2, comma 1, L. n. 241/1990, pure in caso di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità della domanda, impone l'adozione di un provvedimento espresso, consentendosi in tali ipotesi soltanto una sua redazione in forma semplificata, ma non giustificandosi una condotta meramente inerte.

Il silenzio inadempimento non può, invece, configurarsi in presenza di posizioni giuridiche di diritto soggettivo, aventi ad oggetto un'utilità giuridico economica attribuita direttamente dal dato positivo, non necessitante dell'intermediazione amministrativa per la sua acquisizione al patrimonio giuridico individuale della parte ricorrente. 

La ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 1040 del 1° febbraio 2024

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