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Prodotti con specifiche tecniche equivalenti

Cuscino Letto Guanciale Multifunzione

Cons. St., sez. III, 7 gennaio 2021, n. 65

L’equivalenza del prodotto offerto a quello indicato nella legge di gara deve essere provata dall’interessato e non può essere demandata alla stazione appaltante, salva l’ipotesi di prodotti comunemente presenti sul mercato e di utilizzo comune, ove corredati da una scheda tecnica che ne espliciti in modo chiaro le caratteristiche e le qualità, nel qual caso la Commissione può autonomamente valutare se, nonostante la difformità rispetto a quanto richiesto dalla legge di gara, l’articolo offerto possa essere comunque considerato equivalente.

Il Codice dispone che le “caratteristiche previste per lavori, servizi e forniture” sono definite dalla stazione appaltante mediante l’individuazione di “specifiche tecniche” inserite nei documenti di gara (art. 68, comma 1), nel rispetto del canone pro-concorrenziale che garantisca in ogni caso il “pari accesso degli operatori economici alla procedura di aggiudicazione” senza comportare “direttamente o indirettamente ostacoli ingiustificati all’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza” (art. 68, comma 4) o generare artificiose o discriminatorie limitazioni nell’accesso al mercato allo scopo di favorire o svantaggiare indebitamente taluni operatori economici.

Il principio di equivalenza è stato recepito del Codice dei contratti che, all’art. 68, prevede che la stazione appaltante non possa escludere un’offerta perché non conforme alle specifiche tecniche a cui ha fatto riferimento se il prodotto offerto non è “aliud pro alio”, incontrando il concorrente che voglia presentare un prodotto (o servizio) equivalente a quello richiesto il solo limite della "difformità del bene rispetto a quello descritto dalla lex specialis", configurante ipotesi di "aliud pro alio non rimediabile" (Cons. Stato, sez. V, 25 luglio 2019, n. 5258).

La Sezione, per decidere il caso sottoposto al suo esame, ha richiamato la giurisprudenza del giudice di appello (sez. V, 25 agosto 2021, n. 6035; sez. III, 20 ottobre 2020, n. 6345), che ha chiarito come il principio di equivalenza permea l'intera disciplina dell'evidenza pubblica, in quanto la possibilità di ammettere alla comparazione prodotti aventi specifiche tecniche equivalenti a quelle richieste, ai fini della selezione della migliore offerta, risponde, da un lato, ai principi costituzionali di imparzialità e buon andamento e di libertà d'iniziativa economica e, dall'altro, al principio euro-unitario di concorrenza, che vedono quale corollario il favor partecipationis alle pubbliche gare, mediante un legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell'amministrazione alla stregua di un criterio di ragionevolezza e proporzionalità”. Il principio di equivalenza è, dunque, finalizzato ad evitare un’irragionevole limitazione del confronto competitivo fra gli operatori economici, precludendo l’ammissibilità di offerte aventi oggetto sostanzialmente corrispondente a quello richiesto e tuttavia formalmente privo della specifica prescritta (Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2021, n. 4353).

La Sezione ha dato continuità all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’equivalenza del prodotto offerto a quello indicato nella legge di gara deve essere provata dall’interessato e non può essere demandata alla stazione appaltante, cui spetta, invece, di valutare l’effettiva sussistenza dell’equivalenza addotta dal concorrente. Ha ritenuto però che tale principio vada letto e applicato considerando la tipologia di prodotto previsto in sede di gara ed offerto come equivalente, in ragione della sua complessità e, quindi, della possibilità per la Commissione di evincere con immediatezza tale equivalenza.

In altri termini, è certo che, ad esempio, per un macchinario sanitario che abbia alcune caratteristiche tecniche diverse da quelle richieste dalla lex specialis di gara deve essere il concorrente a dimostrare, all’atto della presentazione dell’offerta tecnica, l’equivalenza; invece, a fronte di prodotti comunemente presenti sul mercato e di utilizzo comune, ove corredati da una scheda tecnica che ne espliciti in modo chiaro le caratteristiche e le qualità, la Commissione può autonomamente valutare se, nonostante la difformità rispetto a quanto richiesto dalla legge di gara, l’articolo offerto possa essere comunque considerato equivalente.

Nel caso all’esame della Sezione il concorrente (la cui aggiudicazione è stata annullata dal giudice di primo grado) ha depositato le schede tecniche del guanciale e della cover, dalle quali la Commissione ha potuto evincere le dimensioni e il materiale dei due articoli, le “caratteristiche chimiche e fisio-meccaniche” e le “caratteristiche funzionali”, con la conseguenza che, alla luce della chiara e trasparente raffigurazione della tipologia del prodotto nonché della campionatura depositata, l’Organo valutativo è stato messo in condizione di giudicare l’equivalenza dell’offerta tecnica della concorrente, dando in tal modo doverosa e legittima applicazione al Disciplinare.

Il RUP e il provvedimento di esclusione dalla gara

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Il RUP è privo di competenza ad applicare una prescrizione della legge di gara relativa alla valutazione dell’offerta, quindi riservata alla commissione di gara.
E’ illegittima l’esclusione dalla gara disposta in attuazione di un criterio contenuto del disciplinare riguardante l’attribuzione del punteggio per l’offerta tecnica e non anche i requisiti di partecipazione delle imprese concorrenti.

TAR Campania, Sez. I, 3 gennaio 2022, sent. n. 42

La Sezione ha ritenuto che la stazione appaltante, nel caso oggetto di giudizio, abbia proceduto all'esclusione dell’impresa senza avvedersi che la clausola del disciplinare asseritamente applicata fosse in realtà volta a disciplinare l’attribuzione del punteggio all’offerta tecnica. La determinazione di esclusione motivava la sanzione espulsiva con riferimento al mancato possesso dei requisiti previsti dal disciplinare di gara ai fini della valutazione tecnica, con particolare riferimento al criterio per il quale era “positivamente valutata la maggiore esperienza maturata nei servizi coincidenti con quelli oggetto dell’appalto, desunta dall’apprezzamento delle verifiche di vulnerabilità sismica eseguite dal concorrente”.
Sennonché la prescrizione applicata non contemplava i requisiti di partecipazione alla gara, ma solo i criteri di valutazione dell’offerta.
I requisiti di partecipazione erano dettati in apposito distinto paragrafo del disciplinare che consentiva di presentare l’offerta anche a chi avesse eseguito servizi analoghi a quelli oggetto di affidamento (dunque non solo agli operatori con esperienza maturata nei servizi coincidenti con quelli oggetto dell’appalto).
Dal raffronto tra il disciplinare e il gravato provvedimento di esclusione il TAR ha concluso che il RUP non abbia fatto buon governo della lex specialis di gara, disponendo l’esclusione della ricorrente sulla base di una previsione che fissava i criteri di valutazione delle offerte e non i requisiti di partecipazione.
In realtà, le eventuali inosservanze o incongruenze dell’offerta rispetto al criterio dettato del disciplinare avrebbero dovuto comportare la sola riparametrazione del punteggio attribuito all’offerta tecnica sul profilo specifico e non anche alla sua esclusione.
La decisione ha anche tenuto conto dell’esplicitazione nel disciplinare del metodo di attribuzione del coefficiente per il calcolo del punteggio dell’offerta tecnica.
Ha ritenuto il Collegio che tale precisazione non fosse altro che un chiarimento rivolto alla commissione per guidarne la discrezionalità nell’attribuzione del punteggio alle offerte tecniche, senza introdurre alcuna commistione tra criteri di valutazione e requisiti di partecipazione.
E’ noto che l’attività di valutazione dell’offerta tecnica rientra nelle dirette prerogative della commissione di gara e non del RUP, in linea con quanto previsto dall’art. 77, co. 1, del codice dei contratti pubblici a mente del quale “nelle procedure di aggiudicazione di contratti di appalti o di concessioni, limitatamente ai casi di aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa la valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico ed economico è affidata ad una commissione giudicatrice, composta da esperti nello specifico settore cui afferisce l'oggetto del contratto”.
Tale disposizione deve essere letta congiuntamente all’art. 33 del medesimo codice che assegna alla stazione appaltante il potere di approvare la proposta di aggiudicazione formulata dalla commissione, potendo richiedere a quest’ultima chiarimenti e documenti, senza tuttavia sostituirsi all’attività specialistica rimessa ai commissari.
Del resto, anche la previsione di specifici requisiti di professionalità dei membri delle commissioni di gara contenuta all’art. 84 del codice dei contratti dimostra che la valutazione delle offerte sia rimessa in via esclusiva alla commissione e non possa essere surrogata dalla stazione appaltante che, al più, potrebbe formulare rilievi e stimolare un riesame della valutazione condotta, ma giammai provvedere in sostituzione di essa, altrimenti ponendosi nel nulla le stesse garanzie di professionalità prescritte dal codice.
Dal quadro normativo emerge una chiara ripartizione di compiti e funzioni tra la commissione, a cui è rimessa la valutazione del merito delle proposte con l’attribuzione del relativo punteggio, e la stazione appaltante che (pure per il tramite del RUP) svolge controlli in ordine alla legittimità della procedura, anche verificando l’operato della commissione, ma senza tuttavia potersi sostituire alle sue valutazioni di merito.
E’ indirizzo giurisprudenziale consolidato quello per cui: “la valutazione delle offerte tecniche, infatti, si compendia nell'apprezzamento, massima espressione della discrezionalità tecnica, degli elementi tecnici delle singole offerte e nell'attribuzione dei relativi punteggi sulla base dei pesi e punteggi appositamente indicati, sicché deve essere svolta necessariamente dalla commissione giudicatrice, ovvero dall’organo tecnico munito della necessaria preparazione, competenza ed esperienza professionale nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto, inteso in modo coerente con la poliedricità delle competenze spesso richieste in relazione alla complessiva prestazione da affidare” (cfr. TAR Campania, sez. I, 5 maggio 2021, n. 58).

Interdittiva antimafia

Prefettura di Como, 1.653 aziende hanno chiesto di poter ripartire -  EspansioneTv

Tar Reggio Calabria 3 gennaio 2022, n. 3 

È illegittima l’informazione interdittiva applicata ad una persona fisica non imprenditore, non rinvenendosi nel Codice antimafia, il riferimento all’adozione di informazioni interdittive antimafia nei confronti della persona fisica slegata da qualsivoglia attività imprenditoriale.

Ha chiarito il Tar che l’accertamento antimafia sulla persona fisica (direttore tecnico, dipendente, socio ed amministratore) è pur sempre funzionale ad una valutazione di permeabilità criminosa dell’impresa individuale o societaria cui la medesima è collegata e che abbia chiesto una licenza, una concessione, un’autorizzazione o di contrattare con la P.A. ovvero, come nel caso concreto, l’iscrizione ad un Albo.
Depongono in tal senso elementi di carattere testuale e logico-sistematico: a) la definizione di informativa antimafia interdittiva, emergente dal tenore letterale del menzionato art. 84 c.a.m. che, rispetto alla comunicazione, “presenta un quid pluris individuabile nella valutazione discrezionale da parte del Prefetto del rischio di permeabilità mafiosa capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell'impresa…interdicendole l’inizio o la prosecuzione di qualsivoglia rapporto con l’Amministrazione o l’ottenimento di qualsiasi sussidio, beneficio economico o sovvenzione” (cfr. parere n. 1060 del 12 maggio 2021 dell’Adunanza Generale del Consiglio di Stato); b) l’elenco tipizzato dei soggetti sottoposti a verifica antimafia indicato nell’art. 85 c.a.m a seconda che i destinatari dell’interdittiva siano un’impresa individuale (comma 1) ovvero associazioni, imprese, società, consorzi e raggruppamenti temporanei di imprese (comma 2).
La sottoposizione a verifica antimafia di una persona fisica, quindi, deve essere necessariamente funzionale a significare eventuali condizionamenti criminosi nei confronti di un’impresa individuale o societaria organizzati dalla mafia, onde prevenire il rischio di inquinamento dell’economia legale; ed infatti, per la ditta individuale si richiede la sottoposizione a verifica del titolare o del direttore tecnico o dei familiari conviventi; per le società, associazioni, consorzi, etc., la platea di soggetti sottoposti a verifica è estesa ad altre categorie di persone, quali i soci, i legali rappresentanti, i membri dei collegi sindacali, etc… oltre a tutti i familiari conviventi.
Ciò sta a significare che le informazioni antimafia interdittive, attestanti la sussistenza di possibili tentativi di infiltrazione mafiosa, riguardano specificamente soggetti che sono ascrivibili alla categoria degli “operatori economici”, comprensiva delle persone giuridiche (società, imprese, associazioni) ovvero a quella delle ditte individuali, laddove la ditta coincide con la persona fisica. Non si rinviene, invece, nella normativa, il riferimento all’adozione di informazioni interdittive antimafia nei confronti della persona fisica slegata da qualsivoglia attività imprenditoriale.
​​​​​​​La ratio va ricercata nella funzione assolta dall’accertamento antimafia sulla persona fisica che è quella di misurare il grado di probabile inquinamento mafioso dell’impresa in cui essa risulta inserita o collegata al punto da impedire a quest’ultima di avere rapporti con la P.A. o di ottenere “iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati”.  

Diritti edificatori compensativi "in volo"

Concetto di soggiorno a casa sulla vista laterale della tavola di legno. mano che tiene il cubo di legno. Foto Gratuite

Tar Lazio, sez. II bis, 31 dicembre 2021, n. 13664 

Rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la domanda ex art. 117 c.p.a. di accertamento dell’obbligo dell’Amministrazione di provvedere sulla istanza di un privato titolare di diritti edificatori compensativi di individuare l’area di atterraggio sulla quale esercitare questi ultimi . 

 La titolarità di un diritto edificatorio compensativo legittima il proprietario ad esigere dall’Amministrazione l’individuazione di un’area di atterraggio nei termini convenzionali o, in mancanza, entro termini ragionevoli, da valutarsi caso per caso tenuto conto delle circostanze del caso concreto. 

Il TAR Lazio ha esaminato una fattispecie nella quale veniva in rilievo una pretesa a che l’Amministrazione provvedesse circa l’allocazione di diritti edificatori compensativi “in volo”, per i quali non risultavano individuate le “aree di atterraggio”.  

La Sezione ha ritenuto di ricondurre la fonte genetica della costituzione di diritti edificatori in capo al proprietario di un’area da acquisire al patrimonio dell’Ente, in luogo dell’indennità espropriativa (diritti edificatori compensativi) alla disciplina degli accordi procedimentali ex art. 11 della l. 241 del 1990, con conseguente sussistenza della giurisdizione esclusiva del GA.  

Ha quindi ritenuto che l’utilità che forma oggetto dei diritti edificatori non può essere realizzata dal titolare della relativa situazione giuridica senza o a prescindere dalla collaborazione dell’Amministrazione comunale, titolare del potere di governo del territorio, spettando a quest’ultima la individuazione delle aree nelle quali poter collocare i diritti edificatori e quindi dipendendo da essa consentire l’esercizio dello jus aedificandi che è stato costituito quale compensazione delle facoltà originarie sul suolo espropriato.  

Sulla base di tali premesse, quando la facoltà di individuazione delle aree “di atterraggio” non è esercitata a monte e quindi lo strumento urbanistico non regola già direttamente la loro individuazione, né risultano criteri di utilizzabilità delle volumetrie in maniera automatica (come, ad esempio, negli istituti di perequazione urbanistica con adozione di indici medi di edificazione), la titolarità del diritto edificatorio conferisce al suo titolare nei rapporti con l’Amministrazione una posizione di interesse legittimo, che lo abilita ad esercitare facoltà di tipo sollecitatorio e propositivo verso l’Ente, inclusa la legittimazione a proporre azione contro l’inerzia che quest’ultimo eventualmente serbi nell’individuazione delle “aree di atterraggio” entro termini che (ove non diversamente fissati nella legge regionale o nello strumento urbanistico) devono essere ragionevoli (in quanto estrinsecazione di una obbligazione derivante in capo all’Ente dall’accordo urbanistico).  

In caso di esaurimento delle aree o di altre ragioni di impossibilità sopravvenuta che ne impediscano l’individuazione (come nel caso di sopravvenuto mutamento di strumento urbanistico), la Sezione ha ritenuto che l’Amministrazione sarà tenuta o ad approntare una apposita variante urbanistica (laddove persista l’interesse pubblico a consentire l’edificazione) oppure dovrà procedere alla monetizzazione del diritto e corrisponderne un valore commisurato alla originaria indennità di espropriazione.  

La monetizzazione del diritto edificatorio “in volo” non più esercitabile è spiegata dalla sentenza in commento perché quest’ultima qualifica la costituzione del diritto edificatorio compensativo come una “datio in solutum” dell’originaria obbligazione di pagamento dell’indennizzo espropriativo.  

Richiamando la pacifica elaborazione dottrinale e di giurisprudenza sul tema, la sentenza si colloca nel senso di ritenere che la “datio in solutum” possiede un’efficacia solutoria condizionata alla concreta realizzazione del diritto costituito in luogo della prestazione originaria.  

Pertanto, una volta che il diritto edificatorio “in volo” dovesse risultare non suscettibile (più) di “atterraggio” ovvero di localizzazione, la prestazione sostitutiva diventerà, a sua volta, impossibile e con essa l’effetto solutorio, con la conseguenza che tornerà ad essere esigibile l'obbligazione originaria di indennizzo espropriativo.​​​​

Ordinanza contingibile e urgente in materia di rifiuti

 

E’ illegittima l’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione Calabria in materia di rifiuti, con l’introduzione a regime di una gestione emergenziale dei rifiuti, in assenza, pertanto, dell’individuazione di un termine finale di efficacia, e in mancanza del requisito di contingibilità, cioè degli ordinari rimedi predisposti a livello normativo o impossibilità di farvi ricorso in termini generali.  Tar Catanzaro 30 dicembre 2021, n. 2409 

Ha chiarito il Tar che la ristretta area entro cui il potere di ordinanza contingibile e urgente può essere esercitato ne consente la configurazione quale extrema ratio

Il potere di ordinanza extra ordinem si articola pertanto su indefettibili e concomitanti presupposti, rappresentati: “a) dall’impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza); b) dall’impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (contingibilità); c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalle leggi” (ex multis, Cons.Stato, sez. V, 26 luglio 2016, n. 3369), cosicché “solo in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale” (Cons.Stato, sez. V, 22 marzo 2016, n. 1189).

​​​​​​​La Regione Calabria infatti a fronte delle prospettate e risalenti inerzie contestate all’A.T.O. di Catanzaro, come  confermato, ha totalmente omesso di attivare i poteri sostitutivi secondo lo sviluppo procedimentale previsto dall’art. 2-bis L. n. 14 del 2014, il quale prevede appunto -in caso di contegni omissivi degli enti locali o delle comunità- un intervento in via sostitutiva della Regione, previa diffida ad adempiere entro un termine non superiore a trenta giorni, con successiva ed eventuale nomina di un Commissario ad acta, onerato di concludere il proprio compito entro trenta giorni dalla nomina. 

L’esercizio dei descritti poteri sostitutivi rappresenta pertanto uno strumento tipizzato ed ordinario, che si colloca in una fase antecedente rispetto all’utilizzo delle ordinanze extra ordinem.  

Inoltre, la ratio dell’art. 2-bis L. n. 14 del 2014 è rinvenibile nell’esigenza che - in presenza di distinti livelli di competenza afferenti ad una specifica materia - l’intervento sostitutivo della Regione non si registri ex abrupto, con una radicale e repentina privazione delle cognizioni spettanti all’ A.T.O., ma intervenga in conformità al canone di leale collaborazione, che deve informare il rapporto tra distinti soggetti pubblici. 

Diniego di apertura di un McDonald's alle Terme di Caracalla

    McDonald's a Caracalla a Roma: c'è il NO definitivo - Gambero Rosso

E’ legittimo il diniego di apertura di un McDonald's alle Terme di Caracalla, essendo l'area in cui si trova l'immobile tutelata dal piano territoriale paesaggistico ed inclusa nel centro storico tutelato come sito Unesco 

Cons.St., sez. VI, 28 dicembre 2021, n. 8641 

Ha premesso la Sezione che l’area in cui si trova l’immobile è tutelata dal PTP n. 15/12, art. 134, comma 1, lett c), Valle della Caffarella, Appia antica ed Acquedotti, inclusa nel Centro Storico tutelato come sito Unesco, in area attigua alle Terme di Caracalla, per la quale le Norme tecniche di attuazione (art. 46) prevedono espressamente l’obbligatorietà del procedimento di autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del Codice (d.lgs. n. 42 del 2004).  

Ha aggiunto che l’art. 150, d.lgs. n. 42 del 2004 attribuisce espressamente sia alla Regione sia al Ministero il potere di ordinare la sospensione di lavori atti ad alterare i valori paesaggistici del territorio, a tutela sia dei beni già vincolati sia di aree che si intende tutelare con l'imminente adozione di un futuro vincolo paesaggistico; si tratta, pertanto, di un potere che può essere esercitato anche a salvaguardia di aree o immobili non ancora dichiarati di interesse culturale o paesistico.  

Nel caso di specie peraltro, sulla scorta di quanto sopra evidenziato, la disciplina vigente conferma la sussistenza del vincolo – nei termini predetti – e la conseguente necessità dell’autorizzazione paesaggistica, la cui mancanza ha pertanto in ogni caso giustificato e legittimato il ricorso al potere inibitorio in esame.  

Quanto all’esercizio del potere di autotutela, la Sezione ha ricordato che nella specie sussiste tale potere in termini non di mera rimozione dei pareri precedentemente espressi dalle singole soprintendenze sulla base di una disciplina diversa da quella correttamente ricostruita dalla direzione generale, in quanto l’effetto degli atti impugnati è quello – di per sé neppure integrante un totale arresto procedimentale definitivo – di diffida all’attivazione del corretto percorso procedimentale.

Ha aggiunto che l’assenso edilizio, rilasciato in carenza dell'autorizzazione paesaggistica, sia inefficace (cfr. art. 146, commi 2, e 4, d.lgs. n. 42 del 2004); analogamente, ove l’assenso edilizio sia rilasciato sulla base di un presupposto (id est, l'avvenuto rilascio dell'autorizzazione paesaggistica) in realtà non sussistente se non nominatim (come nel caso di specie, in cui erano stati adottati pareri settoriali, non integranti la forma e la sostanza dell’autorizzazione ex art. 146, d.lgs. n. 42 per il diverso quadro pianificatorio non correttamente prospettato), si è in presenza di una doppia situazione patologica (Cons.St., sez. IV, 14 dicembre 2015, n. 5663). 

In generale, i presupposti dell'esercizio del potere di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall'originaria illegittimità del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari; l'esercizio del potere di autotutela è dunque espressione di una rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti e l'ambito di motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché dall'eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione (Cons.St., sez.  IV, 18 giugno 2019, n. 4133).

Nel caso di specie, oltre al limitato periodo temporale trascorso fra il rilascio degli evocati assensi e l’intervento di rimozione, assumono preminente rilievo i plurimi elementi posti a base degli atti impugnati, pienamente coerenti ai principi predetti: la disciplina vigente ed il conseguente previo necessario rilascio dell’autorizzazione ex art. 146 cit., nei termini già sopra condivisi; la relativa erronea rappresentazione degli elementi di fatto e di diritto rilevanti nella fattispecie; la circostanza che i lavori di trasformazione erano appena stati avviati senza alcun consolidamento, con conseguente connessa valutazione della relativa situazione giuridica dei privati interessati. Emerge altresì dagli atti l’approfondimento motivazionale degli interessi pubblici connessi alla tutela dell’area e del contesto culturale coinvolto, nei termini correttamente indicati sia dalla sentenza impugnata che dalla difesa erariale, oltre che del tutto coerenti ai principi sopra richiamati in tema di autotutela. 

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