Tel. ufficio:

0971.410469

Cell:

392.4116280

L'art. 83 del Codice dei contratti pubblici è incompatibile con la Direttiva appalti

      Tariffe professionali, la Corte Ue salva le deroghe nazionali - Il Sole 24  ORE

La Corte di Giustizia ha stabilito che l’articolo 63 della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale secondo la quale l’impresa, mandataria di un raggruppamento di operatori economici partecipante a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, deve possedere i requisiti previsti nel bando di gara ed eseguire le prestazioni di tale appalto in misura maggioritaria.

 
Il fatto
Una stazione appaltante ha indetto una procedura di appalto pubblico per l’affidamento del servizio di spazzamento, raccolta e trasporto allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani differenziati e indifferenziati.
L’appalto è stato diviso in tre lotti. In relazione ad ogni singolo lotto il bando di gara specificava i requisiti di capacità economica e finanziaria e di capacità tecnica previsti. 
Con riguardo al lotto 2, per un valore di EUR 19 087 724,73, relativo alla prestazione di servizi per undici comuni, l’appalto è stato aggiudicato ad una associazione temporanea di imprese; altra associazione temporanea di imprese risultava seconda classificata.

Il ricorso al TAR e la decisione di primo grado
La seconda classificata ha presentato un ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia contro la decisione di aggiudicare l’appalto all'impresa prima classificata. Quest’ultima ha, dal canto suo, proposto un ricorso incidentale contro la decisione di ammissione dell’ATI alla gara d’appalto.
Con sentenza del 19 dicembre 2019, il giudice ha accolto il ricorso principale e ha annullato l’aggiudicazione dell’appalto. Statuendo sul ricorso incidentale, il giudice ha annullato anche la decisione di ammettere la ricorrente alla gara d’appalto.
Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia ha rilevato che, conformemente al combinato disposto dell’articolo 83, comma 8, e dell’articolo 89 del Codice dei contratti pubblici, un’impresa mandataria può sempre fare affidamento sulle capacità degli altri operatori economici facenti parte del raggruppamento, ma a condizione che soddisfi essa stessa i requisiti di ammissione ed esegua le prestazioni in misura maggioritaria rispetto agli altri operatori economici. 
Nel caso di specie, la prima classificata non soddisfaceva da sola le condizioni previste dal bando di gara e non poteva avvalersi delle capacità delle altre imprese dell’associazione temporanea di imprese di cui era mandataria.
 
L'appello ed il rinvio pregiudiziale
La seconda classificata ha impugnato la sentenza dinanzi al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana.
Il primo classificato, a sua volta, ha interposto appello incidentale contro tale sentenza.
Il giudice del rinvio ha ritenuto che l’interpretazione del Codice dei contratti pubblici fornita dal giudice di primo grado, secondo cui il mandatario in ogni caso deve possedere i requisiti ed eseguire le prestazioni in misura maggioritaria, sia in contrasto con l’articolo 63 della direttiva 2014/24, in quanto quest’ultimo articolo non limita la possibilità per un operatore economico di ricorrere alle capacità di operatori terzi.
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se l’articolo 63 della direttiva 2014/24, relativo all’istituto dell’avvalimento, unitamente ai principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 TFUE, osti all’applicazione della normativa nazionale italiana in materia di “criteri di selezione e soccorso istruttorio” di cui all’inciso contenuto nel terzo periodo del comma 8 dell’articolo 83 del Codice dei contratti pubblici, nel senso che in caso di ricorso all’istituto dell’avvalimento (di cui all’articolo 89 del Codice dei contratti pubblici), in ogni caso la mandataria deve possedere i requisiti ed eseguire le prestazioni in misura maggioritaria».
 
La questione pregiudiziale e l'interpretazione della direttiva
La questione pregiudiziale attiene al se l’articolo 63 della direttiva 2014/24, in combinato disposto con gli articoli 49 e 56 TFUE, debba essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale secondo la quale l’impresa mandataria di un raggruppamento di operatori economici partecipante ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico deve possedere i requisiti previsti nel bando di gara ed eseguire le prestazioni di tale appalto in misura maggioritaria.
La Corte di Giustizia ha rilevato che la direttiva 2014/24 è applicabile ai fatti di cui del procedimento principale. Ha osservato che le disposizioni di tale direttiva devono essere interpretate, in forza del suo considerando 1, conformemente ai principi della libertà di stabilimento e della libera prestazione di servizi.
L’articolo 63 della direttiva enuncia, al paragrafo 1, che un operatore economico può, per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, per quanto riguarda i criteri relativi alla capacità economica e finanziaria nonché i criteri relativi alle capacità tecniche e professionali, e che, alle stesse condizioni, un raggruppamento di operatori economici può fare affidamento sulle capacità di partecipanti al raggruppamento o di altri soggetti. Esso precisa, peraltro, al suo paragrafo 2, che, per taluni tipi di appalto, tra cui gli appalti di servizi, «le amministrazioni aggiudicatrici possono esigere che taluni compiti essenziali siano direttamente svolti dall'offerente stesso o, nel caso di un’offerta presentata da un raggruppamento di operatori economici (...), da un partecipante al raggruppamento».

La decisione della Corte di Giustizia
L’articolo 83, comma 8, del Codice dei contratti pubblici fissa una condizione più rigorosa di quella prevista dalla direttiva 2014/24, la quale si limita ad autorizzare l’amministrazione aggiudicatrice a prevedere, nel bando di gara, che taluni compiti essenziali siano svolti direttamente da un partecipante al raggruppamento di operatori economici.
La norma nazionale, in contrasto con quella europea, impone all’impresa mandataria del raggruppamento di operatori economici di eseguire le prestazioni «in misura maggioritaria» rispetto a tutti i membri del raggruppamento, vale a dire di eseguire la maggior parte dell’insieme delle prestazioni contemplate dall’appalto.

Conclusioni
Secondo il regime istituito dalla direttiva, le amministrazioni aggiudicatrici hanno la facoltà di esigere che taluni compiti essenziali siano svolti direttamente dall’offerente stesso o, se l’offerta è presentata da un raggruppamento di operatori economici  da un partecipante a detto raggruppamento.
Il legislatore nazionale impone invece, in modo orizzontale, per tutti gli appalti pubblici in Italia, che il mandatario del raggruppamento di operatori economici esegua la maggior parte delle prestazioni.
La norma italiana non si limita a precisare il modo in cui un raggruppamento di operatori economici deve garantire di possedere le risorse umane e tecniche necessarie per eseguire l’appalto, ma - in contrasto con la previsione del legislatore europeo - fissa le modalità di esecuzione dell’appalto e richiede in proposito che la stessa sia svolta in misura maggioritaria dal mandatario del raggruppamento.
La volontà del legislatore dell’Unione, conformemente agli obiettivi della medesima direttiva, consiste nel limitare ciò che può essere imposto a un singolo operatore di un raggruppamento, seguendo un approccio qualitativo e non meramente quantitativo, al fine di incoraggiare la partecipazione di raggruppamenti come le associazioni temporanee di piccole e medie imprese alle gare di appalto pubbliche.
L’articolo 83, comma 8, terzo periodo, del Codice dei contratti pubblici, che si estende alle «prestazioni in misura maggioritaria», contravviene a siffatto approccio, eccede i termini della direttiva 2014/24 e pregiudica così la finalità, perseguita dalla normativa dell’Unione in materia, di aprire gli appalti pubblici alla concorrenza più ampia possibile e di facilitare l’accesso delle piccole e medie imprese (sentenza del 2 giugno 2016, Pizzo,C‑27/15, EU:C:2016:404, punto 27).
 

Sanatoria di abusi edilizi e aree sottoposte a vincolo

 

Abusi edilizi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico: condono  applicabile esclusivamente agli interventi di minore rilevanza - RGA Online

  Non può essere sanato un abuso comportante la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in area assoggettata a vincolo paesaggistico.

Con sentenza n. 3088 del 22 aprile 2022, la sesta sezione del Consiglio di Stato si è pronunciato in materia di sanatoria edilizia.

Ai sensi dell’art. 32, comma 26, lett. a), D.L. 30 settembre 2003, n. 269: “Sono suscettibili di sanatoria edilizia le tipologie di illecito di cui all'allegato 1: a) numeri da 1 a 3, nell'ambito dell’intero territorio nazionale, fermo restando quanto previsto alla lettera e) del comma 27 del presente articolo, nonché 4, 5 e 6 nell'ambito degli immobili soggetti a vincolo di cui all'articolo 32 della legge 28 febbraio 1985 n. 47”.

L’art. 32, comma 27, del medesimo decreto legge prevede che: “Fermo restando quanto previsto dagli articoli 32 e 33 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora (…) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.

Secondo quanto prevedono le suddette norme, non sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai numeri 1, 2 e 3 dell’allegato 1 alla citata legge (c.d. abusi maggiori), realizzate su immobili soggetti a vincoli idrogeologici e paesaggistici, a prescindere dal fatto che (ed anche se) si tratti di interventi conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e al fatto che il vincolo non comporti l’inedificabilità assoluta dell’area. Sono invece sanabili, se conformi a detti strumenti urbanistici, solo gli interventi cd. minori di cui ai numeri 4, 5 e 6, dell’allegato 1 al d.l. n. 326, cit. (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria), previo parere della autorità preposta alla tutela del vincolo.

La giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, n. 1664 del 2 maggio 2016; Cons. Stato n. 735 del 23 febbraio 2016, Cons. Stato n. 2518 del 18 maggio 2015) ha, infatti, costantemente affermato che, ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), D.L. n. 269 del 30 settembre 2003, convertito nella legge n. 326 del 24 novembre 2003 (c.d. terzo condono), le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, sono sanabili solo se, oltre al ricorrere delle ulteriori condizioni – e cioè che le opere siano realizzate prima della imposizione del vincolo, che siano conformi alle prescrizioni urbanistiche e che vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo - siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria).

Ne deriva che un abuso comportante la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in area assoggettata a vincolo paesaggistico, non può essere sanato, indipendentemente da ogni ulteriore rilievo. 

L’applicabilità della sanatoria, nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico, alle sole opere di restauro o risanamento conservativo o di manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se ed in quanto conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, è stata confermata anche dalla costante giurisprudenza penale secondo cui: “in tema di abusi edilizi commessi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, il condono previsto dall'art. 32 del D.L. n. 269 del 2003 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 326 del 2003) è applicabile esclusivamente agli interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6 dell'allegato 1 del citato D.L. (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) e previo parere favorevole dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo, mentre non sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai precedenti numeri 1, 2 e 3 del medesimo allegato, anche se l'area è sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” (Corte Cass. 40676 del 2016).

La cd. "amicizia" su Facebook non è causa di incompatibilità dell'esaminatore nei concorsi pubblici

 

Facebook: adesso potete sapere chi ignora le richieste d'amicizia

   Nei concorsi pubblici non sussiste l'obbligo di astensione dell'esaminatore che sia connesso tramite social network al candidato

La settima sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 2849 del 14 aprile 2022, è intervenuta in tema di concorsi pubblici, ritenendo insussistente una situazione di incompatibilità tra esaminatori e candidati tale da imporre l’obbligo di astensione in caso di foto “caricate” sui profili dei social network che li ritraggono insieme, in considerazione del fatto che esse non valgono, da sole, a dimostrare la «commensalità abituale», prevista dall’art. 51 c.p.c..

Sotto tale profilo, in quanto espressione di un principio di indubbio rilievo sistematico, si può fare anche riferimento alla delibera del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa n. 40 del 25 marzo 2021, avente ad oggetto l’uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati amministrativi. L’art. 8 di tale delibera stabilisce infatti che “le amicizie sui profili social non costituiscono un elemento di per sé rilevante a manifestare la reale consuetudine di rapporto personale richiesta ai fini delle incompatibilità, la cui disciplina, di carattere tassativo, è prevista unicamente nell’art. 51 c.p.c.”.

Invero, la sussistenza di una situazione di incompatibilità tale da imporre l’obbligo di astensione deve essere valutata con estrema cautela in relazione alla sua portata soggettiva, onde evitare che la sussistenza dell’obbligo di astensione possa essere estesa a casi e fattispecie in alcun modo contemplate dalla normativa di riferimento.

Nei pubblici concorsi i componenti delle commissioni esaminatrici hanno l’obbligo di astenersi solo ed esclusivamente se ricorre una delle condizioni tassativamente previste dall’art. 51 c.p.c., senza che le cause di incompatibilità previste dalla predetta norma, proprio per detto motivo, possano essere oggetto di estensione analogica.

Così i rapporti personali di colleganza o di collaborazione tra alcuni componenti della commissione e determinati candidati ammessi alla prova orale non sono sufficienti a configurare un vizio della composizione della commissione stessa. Le cosiddette “amicizie” su Facebook sono del tutto irrilevanti poiché lo stesso funzionamento del social network consente di entrare in contatto con persone che nella vita quotidiana sono del tutto sconosciute. Il motivo di astensione è ravvisabile quando vi è prova che il membro della commissione abbia con il candidato frequenza di contatti e di rapporti di tale continuità da far dubitare della sua imparzialità e serenità di giudizio. Il riferimento alla “abitualità” della commensalità esclude per l’appunto, per pura e semplice logica, l’occasionalità della stessa. E della abitualità occorre dare prova. Prova che non può essere certo fornita mediante Facebook; gli scatti fotografici postati sui social media rappresentano singoli episodi e non invece una situazione di abitualità.

Inadempimento di un precedente contratto di appalto ed esclusione dalla gara pubblica

   

  In tema di pubblici appalti, il grave illecito professionale costituito da inadempimento di un precedente contratto di appalto legittima l’esclusione di un operatore concorrente. La stazione appaltante ha l’onere di dar conto di un pregresso episodio di inadempimento che essa reputi grave e sufficientemente ravvicinato nel tempo e dal quale tragga ragioni sintomatiche di inaffidabilità dell’impresa.

Consiglio di Stato, sez. V, 13 aprile 2022, n. 2800

La stazione appaltante può disporre l’esclusione di un operatore concorrente ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c – ter) a condizione che dia conto di un pregresso episodio di inadempimento che essa reputi grave e sufficientemente ravvicinato nel tempo e dal quale tragga ragioni sintomatiche di inaffidabilità dell’impresa.

Il Consiglio di Stato, sez. III, 22 dicembre 2020, n. 8236 ha già chiarito che si tratta di una fattispecie escludente ad applicazione non automatica (né, per tale ragione, i relativi presupposti applicativi sono acclarabili autonomamente dal giudice); presuppone lo svolgimento di apposite valutazioni della stazione appaltante, estese anche "al tempo trascorso dalla violazione e alla gravità della stessa".

Ne discende che non è il mero accertamento del provvedimento sanzionatorio aliunde adottato (sotto forma di risoluzione per inadempimento, condanna risarcitoria o altra "sanzione comparabile") a far scattare la sanzione espulsiva, in quanto, sebbene lo stesso sia astrattamente atto a veicolare "significative o persistenti carenze nell'esecuzione di un precedente contratto", queste sono a loro volta autonomamente valutabili dall'Amministrazione ai fini dell'esercizio del potere escludente dalla specifica gara.
 
Non v’è dubbio che sia rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione la valutazione in punto di affidabilità dell’operatore economico, ossia di formulare un giudizio prognostico sulla sua capacità di eseguire correttamente il contratto in affidamento alla luce delle sue pregresse vicende professionali (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. V, 27 ottobre 2021, n. 7223; in generale sul contenuto del giudizio dell’amministrazione, cfr. Cons. Stato, sez. V, 8 gennaio 2021, n. 307), ma è necessario che detto giudizio abbia a presupposto precise circostanze fattuali che possano far dubitare dell’affidabilità dell’operatore: un “grave illecito professionale” (nel caso dell’art. 80, comma 5, lett. c) ovvero “significative o persistenti carenze nell’esecuzione di precedente contratto” (nel caso dell’art. 80, comma 5, lett. c-ter).
 
Se l’amministrazione giunge a dire inaffidabile un operatore che (sia stato accertato) non abbia commesso alcun grave illecito professionale né si sia reso colpevole di persistenti e significative carenze, il giudizio è di per sé illogico e arbitrario (vizi che il giudice amministrativo può ben conoscere cfr. Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2022, n. 166).
 
La condizione principale alla quale il legislatore subordina l’adozione del provvedimento di esclusione si concreta nell’aver rilevato «significative e persistenti carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto», non essendo quindi sufficiente la verificazione di un «mero errore», e dovendo piuttosto la «frattura del rapporto fiduciario» essere corroborata dalla oggettiva dimensione degli accadimenti. 

Grave illecito professionale e obbligo dichiarativo

 Esclusione da gara per condanna penale: criteri di applicazione
 
  Laddove un’impresa sia esclusa dalla gara d’appalto per grave illecito professionale derivante dalla condanna del suo titolare con sentenza penale non definitiva, è direttamente applicabile l’art. 57, par. 7, della direttiva 2014/24/UE, con la conseguenza che la causa di esclusione non può essere fatta valere se sono decorsi tre anni dal fatto che ha originato la condanna non definitiva.
 
 
Il Tar Campania, sez. I, 31.03.2022, sent. n. 2149 ha pronunciato in merito ad un caso di un’impresa esclusa da una gara d’appalto per grave illecito professionale derivante dalla condanna del suo titolare con sentenza penale non definitiva. E' stata affrontata la questione relativa al tempo di efficacia della causa di esclusione laddove siano già decorsi tre anni dal fatto che ha originato la condanna non definitiva.

L’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016 non stabilisce alcunché in ordine all’efficacia temporale della causa di esclusione, laddove il fatto valutabile come illecito professionale, ai sensi del co. 5, lett. c), derivi da una sentenza penale non definitiva.

I commi 10 e 10-bis dell’art. 80, infatti, si occupano della durata dell’esclusione, nell’ipotesi in cui essa si tragga dalla sentenza penale di condanna definitiva, che non fissi la durata della pena accessoria della incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (commi 10 e 10-bis, primo periodo), ovvero nel caso di adozione di un provvedimento amministrativo di esclusione (con decorrenza dal passaggio in giudicato della sentenza, ove contestato in giudizio: comma 10-bis, secondo periodo).

Allorquando invece venga in rilievo un fatto che, come nella specie, sia valutato quale illecito professionale in base a una sentenza penale di condanna non definitiva, occorre rifarsi alla “norma di cui all’art. 57, par. 7, della direttiva 2014/24/UE, il quale ha previsto, in termini generali, che il periodo di esclusione per i motivi di cui al paragrafo 4 (all’interno del quale rientrano sia la causa di esclusione per gravi illeciti professionali [lett. c)], sia quella delle «false dichiarazioni […] richieste per verificare l’assenza di motivi di esclusione» [lett. h)]) non può essere superiore a «tre anni dalla data del fatto in questione»)” (di recente, Cons. Stato, sez. V, 27/1/2022 n. 575, aggiungendo che: “Alla disposizione contenuta nella direttiva la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha attribuito efficacia diretta nell’ordinamento interno, con conseguente immediata applicabilità”).

In analoga fattispecie, con la richiamata sentenza si è così ritenuto che: “è irrilevante il fatto costitutivo di una delle cause di esclusione di cui all’art. 80 comma 5, lett. c), cit., che sia stato commesso oltre tre anni prima della indizione della procedura di gara; conclusione alla quale si è giunti, dapprima, richiamando il principio generale di proporzionalità di derivazione unionale e osservando come la previsione di un onere dichiarativo esteso a fatti risalenti oltre un determinato limite temporale implicasse un evidente contrasto con tale principio, per la possibilità riconosciuta all’amministrazione appaltante di dare rilevanza a fatti che – per il tempo trascorso – non rappresentano più un indice su cui misurare l’affidabilità professionale dell’operatore economico. 
Un siffatto generalizzato obbligo dichiarativo, senza l’individuazione di un preciso limite di operatività, infatti, «potrebbe rilevarsi eccessivamente oneroso per gli operatori economici imponendo loro di ripercorrere a beneficio della stazione appaltante vicende professionali ampiamente datate o, comunque, del tutto insignificanti nel contesto della vita professionale di una impresa»: in tal senso Cons. Stato, V, 22 luglio 2019, n. 5171; si veda anche Cons. Stato V, 6 maggio 2019, n. 2895). E poi invocando l’applicazione dell’art. 57, par. 7, della direttiva 2014/24/UE, del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’U.E., del 26 febbraio 2014, il quale stabilisce che «[i]n forza di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative e nel rispetto del diritto dell’Unione, gli Stati membri […] determinano il periodo massimo di esclusione nel caso in cui l’operatore economico non adotti nessuna misura di cui al paragrafo 6 per dimostrare la sua affidabilità. Se il periodo di esclusione non è stato fissato con sentenza definitiva, tale periodo non supera i cinque anni dalla data della condanna con sentenza definitiva nei casi di cui al paragrafo 1 e i tre anni dalla data del fatto in questione nei casi di cui al paragrafo 4» (paragrafo, quest’ultimo, che – alla lett. c) – contempla la causa di esclusione dell’operatore economico che si sia reso colpevole di gravi illeciti professionali). Pertanto, per effetto della diretta applicazione della disposizione unionale, il fatto astrattamente idoneo a integrare la causa di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), cessa di avere rilevanza, a questi fini, una volta decorsi tre anni dalla data della sua commissione (cfr. Cons. Stato, V, 7 settembre 2021, n. 6233; V, 26 agosto 2020, n. 5228; V, 5 agosto 2020, n. 4934)”.

Applicando le suesposte coordinate ermeneutiche, nel caso di specie non poteva disporsi l'esclusione della concorrente, atteso che tra il fatto che aveva originato la sentenza di condanna non definitiva e l’indizione della gara sono trascorsi più di tre anni.

Abusi edilizi e compatibilità paesaggistica

Sanatoria e doppia conformità: se la compatibilità paesaggistica non basta

Con sentenza, sez. VI, n. 2441 del 4 aprile 2022, il Consiglio di Stato è intervenuto sui presupposti per la sanabilità ex post degli abusi edilizi in materia di beni paesaggistici.

L’art. 167, D.L.vo 22 gennaio 2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), recante la disciplina delle sanzioni amministrative previste per la violazione delle prescrizioni poste a tutela dei beni paesaggistici, contiene infatti (nella sua attuale formulazione) la regola della non sanabilità ex post degli abusi, sia sostanziali che formali. Il trasgressore, infatti, è “sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, “fatto salvo quanto previsto al comma 4”.

L’intenzione legislativa è chiara nel senso di precludere qualsiasi forma di legittimazione del “fatto compiuto”, in quanto l’esame di compatibilità paesaggistica deve sempre precedere la realizzazione dell’intervento.

Il rigore del precetto è ridimensionato soltanto da poche eccezioni tassative, tutte relative ad interventi privi di impatto sull’assetto del bene vincolato. Segnatamente, sono suscettibili di accertamento postumo di compatibilità paesaggistica: gli interventi realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; l’impiego di materiali diversi da quelli prescritti dall’autorizzazione paesaggistica; i lavori configurabili come interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi della disciplina edilizia (art. 167, comma 4).

L’accertamento di compatibilità, peraltro, è subordinato al positivo riscontro della Soprintendenza e al pagamento di una somma equivalente al minore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione.

Secondo l’orientamento più volte espresso dalla Sezione (tra gli altri, Cons. Stato, sez. VI, 19 novembre 2021, n. 7733), il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, sia esso interrato o meno.

Parlaci del tuo caso, siamo pronti ad ascoltarti

TELEFONO

0971.410469

Studio Legale de Bonis

Lo Studio Legale de Bonis, fondato nel 1872, è uno degli studi legali italiani di più antica tradizione. La tradizione, sinonimo di affidabilità e continuità, si lega con la modernità.

Ultimi Articoli

I Nostri Social

Skype
LinkedIn

Contatti

Via IV Novembre 58 – 85100 Potenza
0971.410469
0971.275503