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Anomalia dell'offerta e preventivo del subappaltatore

 

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Il TAR Lazio, sez. II, 20 dicembre 2021, sent. n. 13167/2021 ha affermato che, in sede di giustificazioni, può esibirsi il preventivo di spesa del subappaltatore redatto in data successiva alla formulazione dell’offerta.

La Sezione ha già rilevato (cfr. TAR Lazio sent. n. 10021/2021) come “la valutazione sulla sostenibilità dell’offerta deve essere effettuata anche tenendo conto delle sopravvenienze di fatto e di diritto che incidono sulla sua tenuta economica, e ciò sia in caso di rivalutazione in melius che in peius per il concorrente”.

Per quanto concerne la stima dei costi del subappalto, il Collegio ha ritenuto di condividere l’orientamento secondo cui il concorrente può “giustificare il ribasso proposto facendo riferimento ai preventivi o alle offerte a lui rivolte dagli operatori economici ai quali abbia deciso di subappaltare (entro i limiti di legge) una o più lavorazioni”, purché “le proposte dei subappaltatori siano a loro volta corredate da giustificazioni, poiché in caso contrario non vi sarebbe alcuna garanzia in ordine alla congruità dei prezzi da costoro praticati e si sottrarrebbe una parte della prestazione (quella subappaltata) al vaglio di sostenibilità da parte della stazione appaltante” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 25.7.2018, n. 4537 e idem Sez. III, 29.10.2020, n. 6618).

Alla luce delle predette coordinate ermeneutiche ne consegue che, nell’ambito della valutazione negoziale dell’affidabilità della proposta contrattuale, al fine di dimostrare la sostenibilità economica dell’offerta per i costi del subappalto, non è richiesto che il preventivo di spesa del subappaltatore debba avere data antecedente, o contestuale, alla formulazione dell’offerta.

Resta indispensabile che l’offerta si fondi su di un insieme di costi e ricavi ragionevolmente prevedibili e documentati, dovendosi tener conto a tal fine dei preventivi di spesa - quali sopravvenienze di fatto - attualizzati al momento della valutazione di anomalia (come avvenuto nel caso oggetto del giudizio).

 

SCIA edilizia e poteri di intervento del Comune

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Il TAR Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 13 dicembre 2021, n. 553, si è espresso in merito alla legittimità di un provvedimento con cui è stato disposto “il divieto immediato di prosecuzione dell’attività di cui alla “Segnalazione certificata di inizio attività” e la rimozione di tutti gli eventuali effetti dannosi e lavori. Il divieto, nel caso concreto, interveniva 88 giorni dopo la presentazione della SCIA.

Ha chiarito il TAR che, in materia di SCIA edilizia, l'amministrazione può intervenire esercitando i poteri di verifica di sua competenza anche ex post, ossia dopo la scadenza del termine ordinario di 30 giorni dalla presentazione della dichiarazione, ma solamente in presenza delle condizioni di cui all'art. 21 nonies Legge n. 241 del 1990 (ai sensi del quale l'annullamento del provvedimento amministrativo richiede, oltre all'illegittimità dell'atto, anche la sussistenza dell'interesse pubblico alla sua rimozione). La motivazione deve dar conto della ponderazione degli interessi in gioco, inclusi quelli dei destinatari dell'atto e dei controinteressati, anche alla luce del tempo trascorso dall'adozione del provvedimento.

Ciò comporta che solo entro 30 giorni dalla proposizione della SCIA edilizia, i poteri de quibus in capo all'amministrazione sono pieni e rivestono il carattere della doverosità e della vincolatività. Decorsi i 30 giorni dalla proposizione della SCIA, invece, ai sensi del successivo comma 4 dell'art. 19 della L. n. 241/90, "l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti" inibitori ovvero repressivo/sanzionatori previsti dal precedente comma 3, previa valutazione dell'esistenza delle condizioni previste per l'esercizio del cd. potere di autotutela di cui all'art. 21 nonies della L. n. 241/90 (in tali termini, T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, 25/01/2021, n. 911).

In buona sostanza, decorso detto termine, il potere amministrativo di controllo e vigilanza sull’attività edilizia non è soggetto a consumazione ma il suo esercizio è sottoposto ad un onere motivazionale “rafforzato” in relazione al rispetto delle condizioni per disporre l’annullamento d’ufficio di cui all'art. 21 nonies della L. n. 241/90 che deve esplicarsi “non mediante il mero richiamo alla mera esigenza del ripristino della legalità, ovvero facendo valere la mancanza dei requisiti oggettivi cui deve conformarsi l'attività privata avviata, bensì comparando tale esigenza con la posizione di vantaggio già acquisita dal privato e con la situazione specifica che si riscontra nel caso concreto”. (si tratta di principi ormai consolidati, a partire dalla nota Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 17 ottobre 2017, n. 8; cfr. da ultimo, T.A.R. Napoli, Sez. II, 11 febbraio 2020, n. 673; T.A.R. Napoli, Sez. II, 16 giugno 2020, n. 2460; Cons. Stato, Sez. II, 14 dicembre 2020, n. 8004; T.A.R. Campania Napoli Sez. II, 03/02/2021, n. 773).

 

Concorrenza, misure cautelari e smaltimento delle bottiglie di plastica

    Raccolta differenziata e riciclo di imballaggi in plastica in aumento

         Il contenuto delle misure cautelari ex art. 14 bis, l. n. 287 del 1990, suscettibili di essere disposte in via interinale dall’Autorità per evitare che, nelle more della conclusione di un procedimento antitrust per l’accertamento di un abuso di posizione dominante ex art. 102 TFUE, possa concretizzarsi un (presunto) danno grave e irreparabile per la concorrenza, in applicazione del principio di strumentalità della tutela cautelare (anche sostanziale), non può eccedere quanto l’Autorità procedente potrebbe adottare con il provvedimento conclusivo del procedimento, avuto riguardo allo stato del mercato riscontrabile al momento della decisione (1). 

         La nozione di "sfruttamento abusivo di posizione dominante" ai sensi dell'art. 102 TFUE è una nozione oggettiva che riguarda i comportamenti di un'impresa in posizione dominante, i quali, su un mercato in cui, proprio per il fatto che vi opera detta impresa, il grado di concorrenza è già sminuito, abbiano l'effetto di ostacolare, ricorrendo a mezzi diversi da quelli su cui si impernia la concorrenza normale tra prodotti o servizi, fondata sulle prestazioni degli operatori economici, la conservazione del grado di concorrenza ancora esistente sul mercato o lo sviluppo di detta concorrenza (2). 

       La disciplina della gestione dei rifiuti di imballaggio risulta ispirata ai principi di chi inquina paga e di responsabilità condivisa tra gli operatori economici; pertanto, occorre che i produttori sostengano i costi della raccolta differenziata, della valorizzazione e dell’eliminazione dei rifiuti in proporzione alla quantità degli imballaggi da ciascuno immessa sul mercato nazionale (3)

      La pretesa di un consorzio di filiera di gestire per intero i rifiuti di imballaggio, anche a fronte di produttori che abbiano aderito ad un sistema autonomo di gestione provvisoriamente riconosciuto, come tale abilitato ad operare sul mercato, integra una condotta anomala, incentrata su mezzi diversi da quelli su cui si basa la concorrenza normale tra servizi fondata sulle prestazioni degli operatori economici, idonea ad impedire lo sviluppo della concorrenza nel mercato, come tale suscettibile di dare luogo ad uno sfruttamento abusivo di una posizione dominante ex art. 102 TFUE (4). 

 

 (1) Ha chiarito  la Sezione che il provvedimento assunto dall’Autorità per evitare che, nelle more della conclusione di un procedimento antitrust per l’accertamento di un abuso di posizione dominante ex art. 102 TFUE, possa concretizzarsi un (presunto) danno grave e irreparabile per la concorrenza, in ragione della sua natura interinale, ha attuato un assetto di interessi di natura provvisoria, destinato ad essere sostituito con l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento antitrust. 

La provvisorietà delle misure cautelari trova, dunque, la propria giustificazione (altresì) in ragione della fase procedimentale in cui la decisione viene assunta: l’Autorità, difatti, qualora sia in condizione di constatare la certa integrazione dell’infrazione, è chiamata ad assumere la decisione finale ex art. 7 regolamento n. 1 del 2003, adottando misure tendenzialmente stabili; altrimenti, è tenuta a proseguire l’istruttoria procedimentale, eventualmente disponendo, nelle more, misure provvisorie qualora sussista il rischio di un danno grave e irreparabile per la concorrenza. 

Ne deriva che le misure cautelari sono assunte in pendenza del procedimento amministrativo, sulla base di un accertamento ancora non completo, avuto riguardo a quanto appare al momento della decisione provvisoria all’uopo adottata. 

Occorre che il bene tutelato dalla norma giuridica, individuabile nell’interesse pubblico all’assetto concorrenziale del mercato - non confondibile con l’interesse privato all’inibizione dell’altrui condotta illecita o al risarcimento di un danno ingiusto derivante dall’infrazione in concreto commessa, stante la necessità di distinguere gli strumenti di pubblic enforcement e private enforcement (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4773) – sia esposto ad un pericolo attuale, sussistendo il rischio di concretizzazione di un danno grave e irreparabile. 

Al ricorrere dei delineati presupposti, l’Autorità procedente è abilitata ad adottare misure cautelari, assumendo una decisione dal contenuto corrispondente alle misure definitive suscettibili di essere disposte a conclusione del procedimento amministrativo. 

Come precisato dalla giurisprudenza europea, in relazione all’art. 3 regolamento CEE n. 17 del 1962, ma con considerazioni di carattere generale riferibili anche alla vigente disciplina concernente l'applicazione delle regole di concorrenza dettate dagli artt. 101 e 102 TFUE, “i provvedimenti cautelari che la Commissione può adottare in via urgente sono quelli che appaiono indispensabili onde evitare che l’esercizio del potere di decisione di cui all’art. 3 risulti vanificato, o addirittura illusorio, per effetto del comportamento di alcune imprese. Ne consegue che i provvedimenti d’urgenza devono rientrare nell’ambito della decisione che può venir adottata in via definitiva in forza dell’art. 3” (sentenza della Corte, 28 febbraio 1984, in cause riunite C-228 e 229/82, Ford of Europe Incorporated, punto 19). 

Si conferma, dunque, che il contenuto delle misure cautelari, suscettibili di essere disposte in via interinale, in applicazione del principio di strumentalità della tutela cautelare (anche sostanziale), non può eccedere quanto l’Autorità procedente potrebbe adottare con il provvedimento conclusivo del procedimento, avuto riguardo allo stato del mercato riscontrabile al momento della decisione. 

 

(2) Corte giust. comm.ue, 25 marzo 2021, C-152/19, Deutsche Telekom AG, punto 41). 

L'esame del carattere abusivo di una pratica di un'impresa dominante deve essere effettuato prendendo in considerazione tutte le circostanze specifiche della controversia, avuto riguardo allo stato di fatto esistente al momento dell’adozione del provvedimento cautelare per cui è controversia. 

Difatti, “la legittimità di un atto amministrativo va accertata con riguardo allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del tempus regit actum” (ex multisCons.St., sez. II, 8 marzo 2021, n. 1908), non potendo, dunque, valorizzarsi, al fine di dedurre l’illegittimità del provvedimento cautelare, circostanze sopravvenute rispetto alla sua adozione, che per propria natura non avrebbero potuto essere valutate in sede procedimentale in quanto non esistenti nel momento della decisione. 

 

(3) Ha chiarito la Sezione che ai sensi dell’art. 221, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, i produttori e gli utilizzatori degli imballaggi sono responsabili della corretta ed efficace gestione ambientale degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio generati dal consumo dei propri prodotti. 

Per adempiere agli obblighi di riciclaggio e di recupero nonché agli obblighi della ripresa degli imballaggi usati e della raccolta dei rifiuti di imballaggio secondari e terziari su superfici private, e con riferimento all'obbligo del ritiro, su indicazione del Consorzio nazionale imballaggi di cui all'art. 224, d.lgs. n. 152 del 2006, dei rifiuti di imballaggio conferiti dal servizio pubblico, i produttori possono alternativamente (ai sensi dell’art. 221, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006): 

a) organizzare autonomamente, anche in forma collettiva, la gestione dei propri rifiuti di imballaggio sull’intero territorio nazionale; 

b) aderire ad uno dei consorzi di cui all'art. 223, d.lgs. n. 152 del 2006; 

c) attestare sotto la propria responsabilità che è stato messo in atto un sistema di restituzione dei propri imballaggi, mediante idonea documentazione che dimostri l'autosufficienza del sistema. 

Con riguardo all’organizzazione autonoma della gestione dei rifiuti di imballaggio sul territorio nazionale, i produttori che non intendano aderire al sistema Conai e, dunque, al Consorzio Nazionale Imballaggi e al Consorzio di filiera, sono tenuti a presentare all'Osservatorio nazionale sui rifiuti il progetto del sistema di gestione autonomo, richiedendone il riconoscimento sulla base di idonea documentazione, attestante che il sistema di gestione è organizzato secondo criteri di efficienza, efficacia ed economicità, è effettivamente ed autonomamente funzionante ed è in grado di conseguire, nell'ambito delle attività svolte, i prescritti obiettivi di recupero e di riciclaggio. 

Il mancato riconoscimento del sistema o la revoca disposta dall'Autorità comportano per i produttori l'obbligo di partecipare ad uno dei consorzi di filiera e, assieme ai propri utilizzatori di ogni livello fino al consumo, al consorzio nazionale imballaggi. 

Tale adesione è obbligatoria ed opera retroattivamente ai soli fini della corresponsione del contributo ambientale previsto dall'art. 224, comma 3, lettera h), d.lgs. n. 152 del 2006 e dei relativi interessi di mora. 

 

(4) Ha chiarito la Sezione che per la gestione di rifiuti primari, in gran parte raccolti (se si esclude l’impiego degli eco-compattatori) attraverso il circuito della raccolta differenziata su iniziativa dei Comuni o degli operatori affidatari del relativo servizio pubblico, il consorzio  avrebbe dovuto concludere un accordo quadro con l’ANCI e singoli accordi con i vari enti comunali, al fine, da un lato, di assicurarsi la possibilità di ottenere il conferimento dei rifiuti da imballaggio in plastica derivanti dalla raccolta differenziata presso le piattaforme di selezione designate dal consorzio  , dall’altro, di adempiere agli obblighi EPR gravanti sui propri consorziati, richiedenti (altresì) una partecipazione ai costi della raccolta differenziata. 

Il consorzio , per potere operare concretamente, avrebbe dovuto concludere anche specifici accordi con i Centri di selezione, ai fini delle conseguenti attività di recupero e riciclo, pure rientranti nell’ambito delle responsabilità dei produttori ai sensi dell’art. 221, d.lgs. n. 152 del 2006. 

La possibilità effettiva di concludere accordi con l’ANCI, i Comuni e i Centri di Selezione era, dunque, essenziale per permettere l’operatività del sistema di gestione e, in ultima analisi, per consentire ai produttori consorziati di potere adempiere ai propri obblighi di gestione ambientale, relativi ai rifiuti derivanti dal proprio immesso al consumo. 

A fronte di un tale contesto di mercato, la condotta del consorzio di filiera detentore di una posizione dominante, volta ad impedire ai nuovi sistemi di gestione, beneficiari di un riconoscimento provvisorio, di raggiungere gli obiettivi necessari per consentire il riconoscimento definitivo, attraverso pratiche incompatibili con il quadro normativo di riferimento, incentrate sulla riserva a sé dell’intero quantitativo dei rifiuti da imballaggio - anche in relazione a quantità di rifiuti non riferibili all’immesso al consumo dai propri consorziati - , non può ritenersi rispettosa della disciplina antitrust. 

In particolare, la pretesa del consorzio di filiera di gestire per intero i rifiuti di imballaggio, anche a fronte di produttori che abbiano aderito ad un sistema autonomo di gestione provvisoriamente riconosciuto, come tale abilitato ad operare sul mercato, integra una condotta anomala, incentrata su mezzi diversi da quelli su cui si basa la concorrenza normale tra servizi fondata sulle prestazioni degli operatori economici, idonea ad impedire lo sviluppo della concorrenza nel mercato, come tale suscettibile di dare luogo ad uno sfruttamento abusivo di una posizione dominante ex art. 102 TFUE. 

Difatti, sotto il profilo giuridico, la normativa in materia di rifiuti di imballaggio, alla stregua di quanto supra osservato, si fonda sulla possibile coesistenza del consorzio di filiera e dei sistemi autonomi di gestione, chiamati a fornire un servizio di ottemperanza agli obblighi di tutela ambientale (in specie, in termini di raccolta, riciclaggio e recupero) posti dalla pertinente normativa settoriale a carico dei produttori. 

Ciascun sistema di gestione è, dunque, chiamato a gestire i rifiuti derivanti dai prodotti immessi al consumo dai propri aderenti. 

Nell’individuazione del materiale suscettibile di trattamento da parte di ciascun sistema di gestione occorre, peraltro, tenere conto della possibilità di identificare e separare materialmente i rifiuti del singolo produttore: particolari problemi si pongono proprio in relazione ai rifiuti di imballaggio primari conferiti al servizio pubblico di raccolta differenziata (quali quelli rilevanti nella specie), che, in ragione delle modalità di raccolta e selezione, non potrebbero essere materialmente separati sulla base del marchio o di altri segni distintivi dell’impresa produttrice. 

Pertanto, in siffatte ipotesi, al fine di individuare i rifiuti suscettibili di essere trattati dal fornitore del servizio di ottemperanza agli obblighi di EPR, occorre avere riguardo, anziché all’eadem res, al tantundem eiusdem generis et qualitatis e, dunque, ai rifiuti della stessa tipologia e quantità corrispondenti a quelli generati dai prodotti immessi al consumo dal singolo operatore. 

Per l’effetto, a fronte di rifiuti insuscettibili di materiale separazione, il consorzio di filiera non potrebbe pretendere di trattare anche il quantitativo di rifiuti riconducibili ai volumi immessi al consumo dai produttori consorziati aderenti ad un diverso sistema di gestione. 

Una tale condotta, oltre a non essere espressamente ammessa dal quadro normativo di riferimento, incentrato sulla possibile coesistenza del consorzio di filiera e dei sistemi autonomi di gestione: 

- da un lato, darebbe luogo ad un servizio (di adempimento agli obblighi EPR) non richiesto dal committente, erogato dal consorzio di filiera in favore di soggetti terzi, aderenti ad un diverso sistema di gestione; si tratterebbe, dunque, di un servizio non giustificato sul piano causale, in assenza di un rapporto qualificato tra il fornitore e il produttore committente su cui, in ultima analisi, dovrebbero gravare gli obblighi di gestione ambientale; 

- dall’altro e conseguentemente, sottrarrebbe i produttori aderenti al sistema autonomo dai propri obblighi di gestione ambientale, che verrebbero adempiuti spontaneamente dal consorzio di filiera, in assenza di un corrispondente onere economico (sotto forma di contributo consortile) a carico del produttore interessato; in tale modo si violerebbe la disciplina positiva, incentrata sulla valorizzazione della responsabilità dei produttori in relazione ai rifiuti derivanti dal proprio immesso al consumo, richiedente un effettivo concorso di ciascun produttore ai costi di gestione ambientale generati dalla propria attività economica. 

La pretesa del consorzio di filiera di gestire rifiuti per un quantitativo eccedente a quello di spettanza dei propri consorziati, oltre a non essere giuridicamente giustificata, non potrebbe neppure essere sorretta da effettive ragioni economiche, emergendo, come osservato, un servizio in assenza di una corrispondente remunerazione (sotto forma del contributo consortile). 

Né potrebbe ritenersi che i costi del servizio siano comunque interamente coperti dai ricavi derivanti dalla vendita del materiale selezionato dai CSS, trattandosi di mera eventualità, peraltro non adeguatamente provata. 

Parimenti, non potrebbe valorizzarsi la previsione di cui all’art. 221, comma 9, d.lgs. n. 152 del 2006, che, in caso di mancato riconoscimento del sistema autonomo o di revoca del riconoscimento, impone ai produttori di partecipare ad uno dei consorzi filiera e, assieme ai propri utilizzatori di ogni livello fino al consumo, al Conai, con l’effetto di vincolare gli aderenti al pagamento in via retroattiva del contributo ambientale previsto dall'art. 224, comma 3, lettera h), d.lgs. n. 152 del 2006e dei relativi interessi di mora. 

Difatti, i contributi da corrispondere in via retroattiva dai produttori, aderenti ad un sistema autonomo di gestione non riconosciuto in via definitiva o titolare di un’autorizzazione successivamente revocata, configurano (ancora una volta) poste meramente eventuali, come tali insuscettibili di fondare le strategie di impresa di un investitore razionale. Una tale condotta, peraltro, disvelerebbe un intento escludente del sistema autonomo di gestione dal relativo mercato. 

Emerge, dunque, che la pretesa del consorzio di filiera, titolare di una posizione dominante nel mercato, di gestire, altresì, i rifiuti riferibili all’immesso al consumo di produttori terzi, non aderenti al consorzio stesso, non potrebbe essere giustificata sul piano giuridico ed economico. 

Una tale strategia potrebbe, invero, essere sorretta dall’intenzione, attuata attraverso una condotta anomala (con mezzi diversi da quelli su cui si basa la concorrenza normale, preclusi dalla normativa di riferimento), da un lato, di impedire l’operatività dei sistemi autonomi di gestione legittimamente entrati nel mercato (in quanto destinatari di un riconoscimento ministeriale, seppure provvisorio), in tale modo posti nell’impossibilità di raggiungere gli obiettivi di tutela ambientali necessari per ottenere il riconoscimento definitivo; dall’altro e per l’effetto, di dissuadere nuovi operatori dall’ingresso nel mercato, in tale modo consolidando la posizione di dominanza dell’incumbent; con conseguente violazione del divieto di cui all’art. 102 TFUE in ragione dell’effetto ostativo allo sviluppo della concorrenza nel mercato così emergente. 

Olii vegetali esausti: rifiuti urbani o rifiuti non pericolosi?

Multyservices - Oli Esausti - Multy Services Cooperativa Sociale a r.l.

Cons. St., sez. IV, 14 dicembre 2021, n. 8330 

Ha stabilito il Consiglio di Stato che l'olio vegetale esausto, nel momento in cui viene raccolto presso le famiglie nell’ambito della “piccola differenziata”  costituisce un rifiuto urbano. L’olio in questione, successivamente immagazzinato nei punti di raccolta comunali, è qualificabile come un rifiuto speciale non pericoloso ai sensi dell’art. 184, comma 3, lettera f), in quanto prodotto “nell’ambito delle attività di servizio”, quale è all’evidenza quella di raccolta in esame.

Ha chiarito la Sezione che la fissazione dei requisiti per partecipare alla gara rientra nella discrezionalità dell’amministrazione aggiudicatrice, la quale ben può prevedere, nell’esercizio di essa e in relazione alla specifica attività oggetto dell’appalto, requisiti diversi da quelli che conseguirebbero ad una meccanica applicazione di quelli ricavabili dalle categorie di iscrizione all’albo, con il solo limite della necessità di individuare requisiti adeguati rispetto agli scopi perseguiti, e quindi non manifestamente arbitrari, sproporzionati o lesivi della concorrenza fra aziende. 

LA GARA

Una società pubblica che gestisce il servizio rifiuti comunale ha indetto una procedura d’asta ad evidenza pubblica per la cessione dei rifiuti classificati con CER 20.01.25, ovvero degli oli vegetali esausti provenienti dalla raccolta differenziata delle utenze domestiche (in altri termini dell’olio residuato della frittura degli alimenti).

L’oggetto della procedura è il servizio di ritiro dell’olio usato “proveniente dalla raccolta differenziata tramite conferimenti da parte delle utenze domestiche” sia presso i centri di raccolta di cui l’appaltante dispone, sia presso altri “punti di conferimento”, alcuni già esistenti presso le scuole ed altri “da individuare, intercettare e servire tramite la fornitura e posa in opera di contenitori a carico del vincitore”, il tutto “per un periodo di 24 mesi”.

Il capitolato ha precisato che l’assegnatario è “tenuto a prelevare il rifiuto” presso i punti di raccolta e a trasportarlo e valorizzarlo – dato che esso ha un certo valore economico, potendo essere utilizzato, ad esempio, come combustibile - presso un impianto di recupero autorizzato nelle forme di legge

Per partecipare, il disciplinare di gara ha previsto a pena di esclusione il “possesso dell’iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali, di cui all’art. 212 del d. lgs. n. 152/2006, per le attività di trasporto di cui al D.M. n. 406/1998 oggetto della presente procedura e, segnatamente, per le seguenti categorie e classi di rifiuti: Categoria 1, classe D e/o Categoria 4 classe F”.

IL RICORSO ED I MOTIVI

Alla procedura hanno partecipato l’appellante, in RTI costituendo con altre imprese, e le controinteressate appellate, in RTI costituendo fra di loro.

La ricorrente, indicata come preposta alle attività di trasporto, è iscritta all’Albo gestori alla categoria 1 e per la piccola differenziata alla classe A (doc. 11 dell’appellante, certificato). La controinteressata appellata, pure indicata come preposta alle attività di trasporto, è invece iscritta all’Albo alla categoria 1, classe C, e alla categoria 4, classe E.

Il RTI costituendo fra le controinteressate è risultato aggiudicatario.

La ricorrente appellante ha domandato l’annullamento degli atti relativi alla procedura d’asta ad evidenza pubblica per cessione dei rifiuti classificati con CER 20.01.25 – oli vegetali esausti – provenienti dalla raccolta differenziata delle utenze domestiche

L’impresa non aggiudicataria ha presentato ricorso in primo grado, contenente un unico complesso motivo di violazione degli artt. 184 e 212 del d.lgs. n. 152/2006, nel quale sostiene in sintesi che il RTI aggiudicatario andava escluso perché illegittimo consentire la partecipazione alle imprese iscritte all’Albo dei gestori per i soli rifiuti non pericolosi e non per i rifiuti urbani.

Ciò in quanto i rifiuti oggetto del servizio, ovvero gli oli vegetali esausti provenienti dalla raccolta differenziata delle utenze domestiche, si potrebbero classificare unicamente come rifiuti urbani, e non come rifiuti speciali non pericolosi genericamente intesi, sulla base dell’art. 184 d. lgs. n. 152/2006 citato.

Inoltre, ha sostenuto anzitutto che il percorso logico svolto dall’appaltante per determinare la popolazione equivalente al quantitativo di oli da raccogliere sarebbe illegittimo, perché sarebbe un modo surrettizio di applicare alla categoria 1 il criterio di divisione delle classi quantitativo, previsto per le altre categorie.

Il TAR ha respinto il ricorso.

Contro questa sentenza, la ricorrente ha proposto impugnazione, ribadendo che l’iscrizione nella sola categoria 4 è insufficiente, perché oggetto del contratto è un rifiuto urbano. Sostiene poi che la previsione della semplice classe E nell’ambito della categoria 1 è illegittima perché in sintesi “per “popolazione servita” si intende il numero degli abitanti che possono conferire i rifiuti al servizio pubblico di raccolta svolto su un determinato territorio”, e nel caso di specie l’olio vegetale esausto oggetto del contratto “viene conferito (nei centri di raccolta, nei plessi scolastici e nei contenitori di futura installazione) dall’intera popolazione residente”.

 LE CLASSI DI ISCRIZIONE ALL’ALBO

L’iscrizione all’Albo nazionale dei gestori ambientali è prevista dall’art. 212 d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, per tutti gli enti e le imprese attivi nel settore, in quanto, ai sensi del comma 5 dello stesso articolo, L’iscrizione all'Albo è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti, di bonifica dei siti, di bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio ed intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi”.

L’iscrizione all’Albo, ai sensi del regolamento attuativo D.M. 3 giugno 2014, n. 120, avviene anzitutto per categorie, che corrispondono ai diversi tipi di attività nell’ambito del settore; per quanto qui interessa, in particolare la categoria 1 corrisponde alla raccolta e trasporto di rifiuti urbani, mentre la categoria 4 corrisponde alla raccolta e trasporto di rifiuti speciali non pericolosi.

Nell’ambito di ciascuna categoria, l’iscrizione avviene poi per classi, che corrispondono, in ordine decrescente, alla maggiore o minore importanza economica dell’azienda, ovvero al volume di operazioni maggiore o minore che essa è abilitata a svolgere. Nell’ambito della categoria 1, le classi si distinguono per “popolazione servita”; per quanto qui interessa poi la classe A corrisponde ad una popolazione servita superiore o uguale a 500 mila abitanti; la classe C ad una popolazione servita inferiore a 100 mila abitanti e superiore o uguale a 50 mila abitanti; la classe D di cui al disciplinare ad una popolazione servita inferiore a 50 mila abitanti e superiore o uguale a 20 mila abitanti. Nell’ambito delle altre categorie, e quindi anche della categoria 4, le classi si distinguono invece per quantità annua di rifiuti complessivamente gestita dall’impresa; sempre per quanto qui interessa, la classe E corrisponde ad una quantità annua gestita superiore o uguale a 3.000 tonnellate e inferiore a 6.000 tonnellate; la classe F ad una quantità annua gestita inferiore a 3.000 tonnellate.

LA DECISIONE DEL CONSIGLIO DI STATO SULLA CLASSIFICAZIONE DEGLI OLII VEGETALI ESAUSTI E SULLA SCELTA DELLE CLASSI DA PARTE DELLA PA

Gli oli vegetali esausti provenienti dalla raccolta differenziata delle utenze domestiche sono rifiuti urbani, ai sensi dell’art. 184 del d. lgs. n. 152/2006; a riprova, l’iscrizione in categoria 1 consente all’operatore di eseguire la raccolta e il trasporto anche dei rifiuti corrispondenti alla Sottocategoria D2 – nota comunemente come “piccola differenziata” –tra cui appunto gli oli e grassi commestibili contraddistinti con il codice CER 20.01.25 (qui rilevante). In questi termini, si spiega la scelta del bando di consentire la partecipazione agli operatori iscritti in categoria 1.

Gli oli vegetali esausti considerati in generale sono anche rifiuti speciali non pericolosi, ai sensi dell’art. 184 del d.lgs. n. 152/2006: in questi termini, si spiega la scelta del bando di consentire, in via alternativa, la partecipazione agli operatori iscritti in categoria 4.

È sicuramente vero che l’olio vegetale esausto, nel momento in cui viene raccolto presso le famiglie nell’ambito della “piccola differenziata” costituisce un rifiuto urbano, e mantiene questa qualificazione giuridica anche quando viene immagazzinato nei punti di raccolta presso ciascun Comune, perché ne rimane intatta la provenienza dalle utenze domestiche.

L’olio in questione, una volta immagazzinato nei citati punti di raccolta, assume anche un’altra caratteristica, non in contraddizione con la precedente, ovvero diviene un rifiuto speciale non pericoloso ai sensi dell’art. 184, comma 3, lettera f), in quanto prodotto “nell’ambito delle attività di servizio”, quale è all’evidenza quella di raccolta in esame.

Ne consegue che l’iscrizione in categoria 4, che appunto abilita al trasporto di rifiuti speciali non pericolosi, va considerata requisito sufficiente per svolgere il servizio, e che la controinteressata, quindi, poteva validamente aggiudicarsi il contratto solo con questo requisito.

Si è poi ritenuta legittima, perché razionale, anche la scelta dell’Amministrazione intimata appellata, di richiedere un’iscrizione in classe inferiore a quella che corrisponderebbe alla popolazione del Comune di riferimento.

Nell’ambito della categoria 1, la scelta di richiedere per la partecipazione l’iscrizione in classe D, che corrisponde ad una popolazione molto inferiore a quella del Comune interessato, si spiega con un ragionamento ulteriore, contenuto nell’art. 3 del capitolato. In sintesi, l’impresa appaltante, sulla base di stime del consorzio degli operatori di settore, ha valutato in 3 kg all’anno per abitante il “quantitativo stimato intercettabile per le utenze domestiche”, ovvero la quantità di olio esausto che prevede di raccogliere; dividendo per questo coefficiente il quantitativo annuo complessivo di olio che prevede di raccogliere e cedere all’affidatario, ha determinato una popolazione virtuale ad esso corrispondente, e ha determinato la classe richiesta per la partecipazione in rapporto a detta popolazione virtuale.

L’iscrizione all’Albo dei gestori ambientali, nelle varie classi e categorie, è condizione di legittimità per svolgere materialmente i servizi corrispondenti, ma non individua di per sé un requisito di partecipazione alle gare corrispondenti indette dalle amministrazioni aggiudicatrici: sul punto, per tutte, C.d.S., sez. V, 5 luglio 2017, n. 3303.

Occorre considerare che gli operatori i quali trattano rifiuti potrebbero muoversi esclusivamente nel mercato privato, senza mai entrare in rapporto con amministrazioni aggiudicatrici, da cui la necessità di fissare, appunto, i requisiti per svolgere il servizio, a prescindere dalle modalità con cui esso viene affidato.

La fissazione dei requisiti per partecipare alla gara rientra invece nella discrezionalità dell’amministrazione aggiudicatrice, la quale ben può prevedere requisiti diversi da quelli che conseguirebbero ad una meccanica applicazione di quelli ricavabili dalle categorie di iscrizione all’albo. In proposito, l’amministrazione, secondo i principi, incontra un solo limite, ovvero la necessità di individuare requisiti adeguati rispetto agli scopi perseguiti, e quindi non manifestamente arbitrari, sproporzionati o lesivi della concorrenza fra aziende: sul punto, esplicitamente, TAR Campania, Napoli, sez. VII, 11 maggio 2016, n. 2393, confermata per implicito in appello da C.d.S., sez. V, 5 luglio 2017, n. 3303.

Nel caso di specie, l’amministrazione si è conformata a questi criteri, richiedendo l’iscrizione in categoria 1 per la classe di popolazione “virtuale” di cui si è detto.

In primo luogo, il criterio non è di per sé pretestuoso, perché conduce comunque a individuare imprese in grado di trattare i quantitativi di rifiuto in gioco, fermo restando che la ditta così individuata potrà solo operare presso i punti di raccolta, e non certo presso le singole utenze domestiche, per le quali è imprescindibile la classe corrispondente alla popolazione effettiva.

Si tratta poi di una scelta che amplia la platea di imprese che possono concorrere, e quindi amplia la concorrenza a vantaggio del mercato. Infine, non sono manifestamente arbitrari nemmeno i criteri a partire dai quali la popolazione “virtuale” è stata individuata, bastando a ciò rilevare che l’Amministrazione si è basata su uno studio del consorzio di settore, che deve presumersi sino a prova contraria, qui nemmeno offerta, aggiornato sulle problematiche corrispondenti.

La previsione per cui l’aggiudicataria deve incrementare il numero dei punti di raccolta va interpretata in senso conforme alla normativa, nel senso che essa è legittima in tanto in quanto non si superi la capacità di trattamento dell’impresa aggiudicataria determinata in base alla categoria e classe di iscrizione.

Natura giuridica del consorzio stabile

Due uomini d'affari si stringono la mano nella caffetteria Foto Gratuite

Consiglio di Stato, sez. V, 14.12.2021 n. 8331

L’art. 45 (Operatori economici), comma 2, lett. c), D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50 afferma: “Rientrano nella definizione di operatori economici i seguenti soggetti: … c) i consorzi stabili, costituiti anche in forma di società consortili ai sensi dell’art. 2615 ter del codice civile, tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro. I consorzi stabili sono formati da non meno di tre consorziati che, con decisione assunta dai rispettivi organi deliberativi, abbiano stabilito di operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni, istituendo a tal fine una comune struttura di impresa”.
Per la giurisprudenza, il consorzio stabile è un soggetto giuridico autonomo, costituito in forma collettiva e con causa mutualistica, che opera in base a uno stabile rapporto organico con le imprese associate, il quale si può giovare, senza necessità di ricorrere all’avvalimento, dei requisiti di idoneità tecnica e finanziaria delle consorziate stesse, secondo il criterio del “cumulo alla rinfusa” (cfr. Cons. Stato, V, 2 febbraio 2021, n. 964; 11 dicembre 2020, n. 7943; VI, 13 ottobre 2020, n. 6165; III, 22 febbraio 2018, n. 1112; V, 22 gennaio 2015, n. 244; III, 4 marzo 2014, n. 1030).
Il consorzio è il solo soggetto che domanda di essere ammesso alla procedura e va a stipulare il contratto con l’amministrazione in nome proprio, anche se per conto delle consorziate cui affida i lavori; è il consorzio ad essere responsabile dell’esecuzione delle prestazioni anche quando per la loro esecuzione si avvale delle imprese consorziate (le quali comunque rispondono solidalmente al consorzio per l’esecuzione ai sensi dell’art. 94, comma 1, D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207 e art. 48, comma 2, D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50).
Elemento qualificante dei consorzi stabili è senz’altro la “comune struttura di impresa”, da intendersi quale “azienda consortile” utile ad eseguire in proprio, ossia senza l’ausilio necessario delle strutture imprenditoriali delle consorziate, le prestazioni affidate a mezzo del contratto (in questo senso si è espressa da ultimo anche Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 18.03.2021 n. 5, ma già in precedenza Cons. Stato, sez. VI, 13 ottobre 2020, n. 6165; III, 16 aprile 2019, n. 2493, tutte rimarcando in questo modo la differenza con i consorzi ordinari).
L’azienda consortile consegue per duplice via: mediante la creazione ex novo di una struttura aziendale con l’assunzione in capo al consorzio di proprio personale unitamente all’acquisizione di propri macchinari, attrezzature e strumenti, con i quali, al pari delle imprese consorziate, dotarsi di capacità tecnico – professionali idonee ad eseguire commesse pubbliche, ma anche – rientrandovi nei limiti consentiti dalla nozione civilistica di “azienda” quale “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” – acquisendo la sola disponibilità giuridica di personale e mezzi che, al momento opportuno, il management consortile possa organizzare per procedere all’esecuzione diretta del contratto (cfr. Cons. Stato, sez. III, 16 aprile 2019, n. 2493 cui si deve l’ulteriore specificazione per cui la disponibilità giuridica consiste in “un complesso di rapporti giuridici che consentono all’imprenditore di disporre di mezzi necessari all’esercizio dell’impresa” e la costituzione dell’azienda dipende da “la capacità giuridica dell’imprenditore medesimo di asservirli ad una nuova funzione produttiva, diversa da quelle delle imprese da cui quei mezzi siano eventualmente “prestati””).
In quest’ultimo caso, in definitiva, il consorzio potrà attingere dalle singole consorziate il personale, i mezzi e le attrezzature, ma anche, eventualmente, le risorse finanziarie, che, organizzate in maniera originale, consentiranno l’esecuzione diretta del contratto (le ragioni che inducono a considerare valida anche questa seconda forma organizzativa sono esposte da Cons. Stato, sez. III, 13 ottobre 2020, n. 6165 secondo cui che l’alterità soggettiva che caratterizza il consorzio rispetto alle consorziate non può essere spinta fino al punto di imporre la nascita di un soggetto che sia integralmente slegato dalle imprese; se è vero, infatti, che la funzione del consorzio è quella di favorire la partecipazione delle piccole e medie imprese alle procedure di gara cui non avrebbero potuto partecipare con i soli propri requisiti, al tempo stesso beneficiando di un rapporto mediato tra l’amministrazione e la consorziata data dal consorzio e dalla struttura consortile, la creazione di un consorzio stabile non può condurre alla nascita di un’impresa che sia necessariamente portata all’esecuzione in proprio del contratto, poiché ciò rendere inutile la previsione dell’istituto stesso del consorzio stabile).
Si è così tracciato, alla luce delle indicazioni giurisprudenziali, il tipo legale del consorzio stabile.
A questo punto la questione della natura giuridica del consorzio partecipante alla procedura di gara è una questione di interpretazione degli atti negoziali, dell’atto istitutivo e dell’eventuale regolamento che ne disciplina il funzionamento: qualora dall’interpretazione delle clausole statutarie si giunga a dire il soggetto collettivo istituito dalle imprese conforme al tipo legale del consorzio stabile di cui al codice dei contratti pubblici, ne discenderanno tutti gli effetti che la legge prevede, ivi compreso quello di poter nominare una o più tra le proprie consorziate per l’esecuzione dell’appalto, quale che sia l’effettivo livello di attuazione in concreto delle previsioni statutarie.
Dall’esame degli atti negoziali può evincersi, infatti, se le imprese abbiano voluto istituire un consorzio stabile, inteso come soggetto collettivo con causa mutualistica, e come abbiano realizzato la “comune struttura di impresa”, se dotando il consorzio di una azienda sua propria ovvero consentendogli di attingere alle (aziende) delle singole consorziate; se ciò è avvenuto, il consorzio esiste ed ha la natura di consorzio stabile, ciò di cui potrà dubitarsi è solamente della sua operatività e, ai fini che qui interessano, dell’idoneità a rendersi aggiudicatario dell’appalto, ma non certo a partecipare in tale forma alla procedura di gara.

Idoneità delle referenze bancarie da produrre in gara

 Processo di lavoro di squadra.  giovane equipaggio di manager aziendali che lavora con un nuovo progetto di avvio.  labtop sul tavolo di legno dell'ufficio, digitando la tastiera, inviando messaggi di testo, analizza i piani grafici Foto Gratuite

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata, con la sentenza n. 771/2021, ha fornito indicazioni in merito all'idoneità delle referenze bancarie da produrre in gara.

Con il ricorso è stato negato il possesso da parte dell'operatore economico dei requisiti di capacità economico-finanziaria richiesti dal disciplinare di gara, con speciale riferimento alla produzione di dichiarazioni di almeno due istituti bancari attestanti l’affidabilità e la solvibilità.

La dichiarazione resa dalla Banca ed in concreto allegata all'offerta dal concorrente riportava unicamente che quest'ultimo è «una impresa con vasta esperienza nel settore di appartenenza, nonché cliente del nostro istituto bancario da molti anni».

Nel caso di specie, quindi, il TAR ha ritenuto del tutto assente l'indicazione della correttezza e puntualità del soggetto interessato, o una rappresentazione qualitativa del rapporto in atto tra l’impresa e l'istituto bancario.

L’unica referenza bancaria presentata non è stata ritenuta idonea a qualificare l’impresa sul piano economico-finanziario, non riferendo sulla qualità dei rapporti in atto con la società in termini di correttezza e la puntualità di questa nell'adempimento degli impegni assunti con l'istituto, di assenza di situazioni passive con lo stesso istituto o con altri soggetti (Cons. Stato, sez. III, 27 giugno 2017, n. 3134).

Resta irrilevante il fatto che il concorrente, nel proprio fascicolo processuale, abbia prodotto i bilanci degli ultimi tre anni, dai quali potrebbe evincersi l’assenza i perdite d’esercizio, nonché una dichiarazione rilasciata dalla Banca (di data ben successiva al termine ultimo di proposizione delle offerente) integrativa della referenza già prodotta in gara, che darebbe atto della sua affidabilità economico-finanziaria.

Ha ritenuto il Collegio che il concorrente abbia violato in toto la disciplina di gara, non presentando neppure un’attestazione idonea a provare la propria capacità economico finanziaria, che a norma dell’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti, assume valenza di elemento essenziale dell’offerta, ed in tal modo ha precluso il relativo accertamento da parte della stazione appaltante.

Nel caso concreto, non sono stati ritenuti sussistenti i presupposti per l’applicazione del soccorso istruttorio in quanto non si versava in ipotesi di integrazione, o chiarimento o completamento di documenti già prodotti, bensì di originaria carenza di idonee referenze bancarie “tout court” (cfr. T.A.R. Emilia Romagna, sez. II, 16 gennaio 2020, n. 25).

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